Nell’enorme bibliografia sull’argomento, spesso ha prevalso un atteggiamento tendente a vedere nell’antisemitismo un’eccezione nel quadro complessivo della cultura europea. Al contrario, l’antisemitismo è da leggere quale componente di un pensiero politico "rivoluzionario" ostile alla società borghese liberale e in aperta concorrenza col socialismo e il marxismo. L’antisemitismo si presenta come un’ideologia di mobilitazione dei ceti medi timorosi di uno sviluppo capitalistico che distrugga la proprietà, declinandosi quale progressiva finanziarizzazione dell’economia. Da qui, di conseguenza, la distinzione degli economisti antisemiti fra un capitalismo positivo e il capitalismo aggressivo della «finanza ebraica», la domanda di un «socialismo dei piccoli proprietari», l’elaborazione del concetto di «razza» quale nuovo legame sociale che sostituisca quello, ritenuto ormai corroso, della società borghese liberale, e, soprattutto, il progetto di restituire al "politico" quel primato che, in epoca capitalistica, sembra demandato alla «finanza ebraica». A questo punto, l’antisemitismo, dopo che per decenni, attraverso sociologi ed economisti, da Toussenel a Hamon, da Auguste Chirac a Malynski, aveva polemizzato contro la finanziarizzazione dell’economia, è ormai politicamente maturo per incrociare, subito dopo la prima guerra mondiale, le suggestioni dei movimenti politici totalitari, portando in dote una critica corrosiva della società borghese liberale.
INTRODUZIONE
1. Storicizzare l'orrore
Alla questione se sia possibile rintracciare una teoria politica dietro il progetto di Auschwitz, l'unica risposta plausibile è che soprattutto Auschwitz necessita dell'intervento della teoria politica; ossia, proprio perché si è in presenza di uno sterminio che, pianificato in tutti i dettagli tecnici e organizzativi, risulta collocato all'interno di una prospettiva politica complessiva ed epocale (la «ripulitura» della terra dagli ebrei, per riprendere un concetto dei francofortesi), una volta delegato alla storiografia il compito di delineare le tappe e gli aspetti dello sterminio, è proprio alla teoria politica che forse bisognerebbe cedere la parola.
Verrebbe, anzi, da aggiungere che, soprattutto dietro e all'interno di Auschwitz, si aggira un pensiero politico che necessita di essere dipanato e sottoposto al procedimento di razionalizzazione. Volendo volgere in parafrasi un celebre verso di Heidegger, è il caso di osservare che laddove la politica si presenta nelle scansioni più radicali e così estreme da ridefinire lo stesso concetto di «uomo», proprio lì la teoria è convocata a verificare la sua vocazione nel semplificare che è contorto, rivendicando l'atroce diritto di aggirarsi trai mattatoi umani per comprendere e storicizzare l'avvenuto. C'è dunque teoria per quanto aberrante — dietro Auschwitz. L'estremo punto della violenza necessita di una storicizzazione altrettanto estrema, quale procedimento che ponga le condizioni teoriche per comprendere fino in fondo l'evento, abbandonando il timore che il procedimento di storicizzazione «normalizzi» la violenza.
Ora, è bene riconoscere che l'analisi teorico-politica dell'antisemitismo non consiste nell'oggettiva difficoltà di storicizzare la punta estrema di una violenza che rimette in discussione il concetto di «uomo».
La constatazione che l'antisemitismo si è in genere realizzato in ambiente politico totalitario impone di distinguere ciò che è l'antisemitismo in sé e per sé, da ciò che è invece da addebitare alla specificità dell'ideologia politica totalitaria. È una difficoltà a nostro avviso risolvibile, indagando l'universo ideologico antisemita così come viene a costituirsi e a operare nei sistemi politici liberali. Il carattere antisistemico e rivoluzionario dell'antisemitismo fa in modo che questo sia vocato a integrarsi in ambiente politico totalitario; è dunque questo carattere che necessita di essere sottoposto a indagine.
Del resto, il riconoscimento che l'antisemitismo è una teoria rivoluzionaria implica la necessaria conseguenza di riconoscergli che è una teoria politica che non intende modificare solo alcuni aspetti della società: il suo obiettivo è di cambiare tutto il sistema sociale, dall'economia alle istituzioni politiche, dalla morale alla mentalità.
La posizione che l'antisemitismo sia altro dalla cultura politica europea e sia esterno a questa è vocata a precludersi la comprensione del suo oggetto di studio.
Ogni procedimento di sterminio tradisce una presenza, più o meno occulta, di un progetto ideologico e politico alle sue spalle. Dietro le catastrofi storiche, soprattutto quelle contemporanee, hanno agito potenti sollecitazioni e progetti ideologici, che hanno determinato le catastrofi medesime. Se così non fosse, la storiografia e la teoria politica dovrebbero cedere il passo alla criminologia.
Questa è una constatazione valida soprattutto nel secolo degli stermini organizzati: nel corso del Novecento, non c'è stato nulla di più ideologico degli stermini organizzati. Per dire meglio, la nostra ipotesi teorico-politica è che gli stermini, essendo soprattutto una soluzione organizzativa e politica rivoluzionaria, necessitano di appoggiarsi a ideologie altrettanto rivoluzionarie; e nel Novecento le ideologie che hanno fatto ricorso agli stermini sono state ideologie rivoluzionarie: sono state vere e proprie interpretazioni della vita, dell'uomo e della
Storia, che intendevano rovesciare il corso di quest'ultima, sgombrando il percorso da quei soggetti, istituzioni e sistemi sociali che le narrazioni ideologiche rivoluzionarie ritenevano ostacoli sul cammino della liberazione dell'uomo.
La constatazione potrà sembrare a dir poco offensiva nei confronti di chi, volta a volta, era ritenuto un «ostacolo»; ma è proprio ciò di cui i persecutori erano convinti: la radicalità e l'epocalità dell'obiettivo, l'approdo dell'uomo al Regno della Libertà, richiedevano un'estrema radicalità nei metodi. E allora, se lo sterminio rimandava una pregressa ideologia rivoluzionaria, l'atto estremo richiede la storicizzazione estrema. Una delle ipotesi su cui si regge gran parte della nostra ricostruzione è che l'antisemitismo costituisca un sistema ideologico complesso, ben al di là della semplificazione dialettica ariano-semita, e che dunque va osservato dall'interno, assumendo una posizione che potremmo definire «empatica», senza sottovalutare le articolazioni del suo sistema ideologico. Si tratta di analizzare l'antisemitismo per ciò che ha preteso di essere: una teoria rivoluzionaria che dispone di una propria Weltanschauung, mirata a rovesciare la società borghese liberale; il che significa, in subordine, una teoria rivoluzionaria che, presentatasi sul mercato politico e delle idee, si trova nella condizione di avvertire la concorrenza politica delle altre teorie rivoluzionarie.
Si potrebbe, anzi, sostenere che la realizzazione del «male assoluto» nella storia umana presuppone l'esistenza di un'ideologia altrettanto assoluta, ossia di un'ideologia che prevede approdi che rimettano in discussione il concetto tradizionale di «uomo». In caso contrario, il male assoluto porrebbe capo all'inesplicabile assoluto: e questo risultato nessuna posizione storiografica e/o teorico-politica è disposta ad accettarlo: in questo caso, non possiamo che richiamarci ad Adorno, quando osserva che «la coscienza che vorrebbe tener testa all'indicibile, si vede sempre di nuovo costretta al tentativo di comprendere, sotto pena di soccombere soggettivamente alla follia oggettivamente dominante» (Adorno 1951, 1983, p. 115).
In proposito, ci sembrano necessarie alcune indicazioni. La prima è che uno degli errori metodologici che la storiografia sull'antisemitismo ha corso spesso è stato quello di riconoscere un'autosufficienza teorica e culturale al suo oggetto di studio, supponendo che esso prendesse piede senza o con scarsi rapporti con le culture e i movimenti politici correnti. Al contrario, essendo l'antisemitismo una cultura politica come il marxismo, il liberalismo ecc., storicizzarlo implica riconoscergli che risente del dibattito politico-culturale dei periodi in cui riesce a rendersi più visibile. Crediamo che ricostruire, sotto l'aspetto storiografico e teorico-politico, l'antisemitismo, emancipandolo dal panorama culturale in cui esso matura e trova visibilità politica, costituisca un atteggiamento storiografico autoconsolatorio, che elude la questione storica dell'antisemitismo, negandogli seccamente la cittadinanza nella cultura politica europea: troppo orribile la sua ideologia, e troppo disumani i suoi esiti storici, perché esso possa accampare pretese di un radicamento culturale continentale.
Ma basta scorrere un qualsiasi testo di autore antisemita, per registrare come l'antisemitismo intrattenga un rapporto di confronto con la cultura europea: se Maurras non esita a riconoscere Comte tra i suoi riferimenti intellettuali, Chamberlain, per giustificare il motivo per cui, pur essendo privo di titoli scientifici e colturali significativi, abbia comunque intrapreso uno studio storico e filosofico così impegnativo si richiama agli interessi di Schopenauer per la medicina e a quelli di Hegel per la storia.
Quella che si propone, in altri termini, è un'interpretazione dell'antisemitismo quale universo ideologico rivoluzionario autosufficiente e autonomo, ma in stretto dialogo con le altre culture presenti sul mercato politico, nonché intento a offrire soluzioni ai problemi della società borghese liberale.
L'altra precisazione è che in questa sede non richiamiamo tanto le suggestioni che l'antisemitismo aveva esercitato in alcuni settori ed esponenti della cultura europea, provocando in qualche caso una vera e propria deriva antisemita di diversi intellettuali di prestigio, da Céline a Pound, tanto per richiamarne alcuni dei più significativi. La questione su cui si preferisce richiamare l'attenzione concerne l'angolo di interpretazione dell'antisemitismo: se storicizzare significa anche collocare un fenomeno politico e culturale nell'epoca storica in cui si era reso visibile, allora l'opera di storicizzazione dell'antisemitismo deve comunque delineare i rapporti che questa cultura politica aveva stabilito con la sua epoca e gli alimenti e le suggestioni che esso aveva saputo trarre dalle altre culture, specie quelle rivoluzionarie, affermatesi nel dibattito pubblico.
2. Normalizzare l'antisemitismo
Procediamo a qualche altra precisazione preliminare. L'errore teorico-politico più grossolano che si possa consumare nell'analizzare l'universo ideologico dell'antisemitismo è quello di supporre che esso sia una malapianta che, essendo dotata di radici autonome, recalcitri dal nutrirsi degli umori e delle sostanze del terreno comune agli altri universi ideologici. Il nostro sospetto è che questo abbaglio abbia attraversato una parte significativa della storiografia novecentesca impegnata nello scandagliare gli abissi dell'antisemitismo, dai francofortesi alla Arendt. Un atteggiamento teorico-politico empatico nei confronti dell'antisemitismo è necessario invece per comprendere gli aspetti più orribili e devastanti della Shoah. L'errore più grossolano che si possa commettere nell'analisi storiografica dell'antisemitismo è quello di pensare che esso sia stato una cultura politica accampatasi su un terreno esterno al perimetro della cultura europea. Accettare questa prospettiva, implicherebbe la conseguenza di leggere la strategia nazista dello sterminio quale eccezione rispetto al quadro politico-culturale continentale.
Riconosciuto che la Shoah è la vicenda storica che caratterizza il Novecento, si tratta di restituire l'ideologia che la ispira appunto a quel secolo, osservandola come il risultato di una cultura politica che intendeva offrire risposte e prospettive alla crisi della politica e dell'uomo contemporaneo. Leggere l'antisemitismo sub specie theoriae presenta dunque l'indubbio vantaggio di restituirlo alla contemporaneità.
E curioso che la storicizzazione del nazismo, ossia la sua collocazione lungo una linea di lungo periodo, che autorizzi una sua lettura, peraltro storiograficamente condivisibile, anche come erede di suggestioni e posizioni presenti nella cultura politica occidentale (Traverso 2001, 2002), non si sia accompagnata a un'identica operazione nei confronti dell'antisemitismo, quasi che il riconoscere che quest'ultimo è stato un'ideologia politica annidatasi in parecchi settori della società e della cultura europee implicasse conseguenze storiografiche disastrose.
Se non procedessimo a una ricognizione dell'universo ideologico dell'antisemitismo, non solo diversi aspetti della SUA rimarrebbero preclusi alla comprensione storica; ma — problema non meno pregnante — svanirebbe un aspetto significativo del Novecento, quale secolo in cui le ideologie hanno svolto un ruolo determinante nella politicizzazione e nella mobilitazione delle masse, e dunque quale secolo M cui si sono affrontate idee politiche opposte. Per dire meglio, la ritrosia a vedere nell'antisemitismo un universo ideologico rischia di sciogliere il legame strettissimo fra la Shoah e il secolo in cui questa si è verificata.
L'evidenza che l'antisemitismo trova nel nazismo il regime politico totalitario in cui realizzarsi rischia di passare in secondo piano che esso poteva vantare una lunga tradizione autonoma. Questo significa che si tratta di porre sotto la lente analitica non solo quanto di quella tradizione autonoma si fosse riversato e tradotto nel nazismo, ma soprattutto quali motivi inducevano quella tradizione a orientarsi con sicurezza verso quell'ideologia politica.
L'antisemita, a cominciare da un Drumont, per finire a tutti quelli che, come Rosenberg, elaborarono le loro posizioni in ambiente politico democratico e pluralista, è senza dubbio un intellettuale militante che vive e opera, impegnandosi nel raccogliere e problematizzare atteggiamenti culturali e politici socialmente diffusi, con lo scopo di offrire una lettura dei fenomeni storici naturalmente differente rispetto a quelle che riscuotono consensi sul mercato politico.
Ciò che s'intende sostenere è la necessità di una normalizzazione dell'antisemitismo, quale premessa fondamentale da cui ridefinire la storicizzazione del percorso che conduce alla Shoah. Almeno nei suoi aspetti ideologici — limitiamo volutamente il discorso all'ideologia, evitando di sconfinare nelle traduzioni politiche di quest'ultima l'antisemitismo non è stato differente dalle altre culture politiche rivoluzionarie, almeno fino al 30 gennaio 1933.
Ora, la normalizzazione che proponiamo è da intendersi in una duplice prospettiva: si tratta di intendere l'antisemitismo quale posizione presente nelle società borghesi liberali europee, in una maniera più o meno marcata e visibile, avendo esso contribuito, alla pari delle altre teorie rivoluzionarie, a caratterizzare quelle società. In altri termini, una circumnavigazione attorno all'antisemitismo implica il transito attraverso l'arcipelago frastagliato del pensiero politico rivoluzionario contemporaneo, ossia la restituzione dell'antisemitismo a quel luogo politico, e la sua inscrizione nell'articolato paradigma delle posizioni critiche nei confronti della società borghese liberale. Per essere più chiari, si tratta di restituire l'antisemitismo al dibattito politico e culturale europeo, rileggendolo come un'articolazione di quest'ultimo e quale universo ideologico che si autoinveste del compito di risolvere i nodi, le storture e i problemi che attraversano settori consistenti della società borghese liberale, vedendo in questa il deleterio quadro storico da cancellare.
Ma crediamo che esista un secondo livello di normalizzazione dell'antisemitismo; esso consiste nel considerarlo una posizione politica che si faceva carico dei nodi irrisolti di quella società, offrendo chiavi di lettura e prospettive che scendevano in competizione sul mercato politico, assieme alle altre soluzioni antiborghesi e rivoluzionarie. E non v'è dubbio che le accuse antisemite all'ebraismo di cospirare per la tirannide mondiale, di avere dato vita a una società borghese liberale disumanizzata, a causa del primato del mammonismo e del materialismo, con tutto l'articolato concerto di accuse che ne conseguiva, costituivano una risposta ai nodi irrisolti e ai problemi che serpeggiavano negli altri sistemi ideologici coevi, a cominciare proprio dalla registrazione della crisi in cui era sprofondato l'uomo nella società borghese di massa.
In quanto teoria politica rivoluzionaria, l'antisemitismo lo si comprende comparandolo con le altre teorie rivoluzionarie presenti sul mercato politico della società borghese liberale, tenendo comunque presente che ogni comparazione implica la differenziazione, nel senso che si tratta di un'operazione utile per sottolineare la specificità delle singole proposte ideologiche.
È il caso, dunque, di rovesciare l'ottica di analisi degli aspetti ideologici dell'antisemitismo. Una delle nostre ipotesi secondarle — non del tutto trattata in modo esplicito, ma evocata nel corso del lavoro — è che l'antisemitismo proprio in quanto teoria politica rivoluzionaria, può essere anche utilizzato di riflesso, per cogliere qualche aspetto comune che attraversa un po' tutto l'universo ideologico rivoluzionario contemporaneo. Volendo brevemente anticipare quanto discusso più avanti, ci pare che uno di questi aspetti consista nel ruolo centrale che le teorie rivoluzionarie intendevano assegnare alla politica, quale prassi per rovesciare gli esiti di quel primato dell'economia che caratterizzava la società borghese liberale.
Stiamo proponendo una tardiva strategia «revisionista»? Liquidiamo sommessamente la questione, osservando che, nell'attuale deserto delle idee, un'opera di «revisione» assume un carattere quanto meno di rottura. Per respingere quest'accusa sarebbe più che sufficiente osservare che l'antisemitismo era presente in un continente in cui da diversi secoli si era affermata una rigogliosa cultura antigiudaica.
Ora, come si cercherà di dimostrare più avanti, l'antisemitismo intrattiene un rapporto dialettico e di conflittualità soprattutto con le teorie politiche rivoluzionarie, in particolare col socialismo marxista, visto come il concorrente più pericoloso per l'udienza che quest'ultimo riscuoteva nelle classi subalterne in quanto atteggiamento ostile alla società borghese liberale. Di conseguenza, in quanto teoria politica rivoluzionaria, l'antisemitismo lo si può comprendere sviluppando un'analisi comparativa con le altre teorie politiche rivoluzionarie emerse in epoca borghese liberale, in particolare con la più elaborata e seducente di queste teorie, il socialismo marxista.
L'altra precisazione è che, volendo anticipare quello che più oltre abbiamo definito quale «trasversalismo cronologico», un approccio alla teoria politica dell'antisemitismo richiede un'attenzione specifica all'ultimo trentennio dell'Ottocento, rispetto agli anni del Novecento compresi fra lo sviluppo dell'antisemitismo di Stato a opera dei regimi totalitari e l'organizzazione della «soluzione finale».
Se la Shoah è la fase culminante dell'antisemitismo in Europa, è anche verosimile che quel periodo storico fu povero di teoria politica; non perché a dominare la scena furono le capacità organizzative e la lucidità politica dei persecutori, ma in forza della constatazione storiografica che lo statuto teorico dell'antisemitismo era già stato meticolosamente elaborato da una lunga quanto complessa tradizione culturale che ormai datava da quasi un secolo. Sotto l'aspetto della teoria politica, l'antisemitismo novecentesco presenta poche originalità; e quasi nessuna originalità, sotto l'aspetto teorico-politico, presenta l'antisemitismo praticato dagli Stati totalitari: gli assassini come Himmler e Heydrich fanno il loro ingresso sulla scena quando già da qua si un secolo i Toussenel, i Drumont ecc. avevano provveduto a definire con precisione l'universo ideologico di riferimento. La Shoah acquista semmai una specificità teorico-politica perché si situa lungo un crinale originale, quello del rapporto fra antisemitismo e sistema totalitario, sollecitando una ricognizione simultanea lungo due versanti: il primo inerente il modo con cui l'antisemitismo riuscì a utilizzare le innumerevoli risorse messe a disposizione dallo Stato totalitario per realizzare i progetti di lotta contro l'ebraismo; e il secondo inerente il modo con cui lo Stato totalitario utilizzò a sua volta le istanze e le domande politiche radicali dell'antisemitismo per accentuare e precisare ulteriormente la sua spinta totalitaria.
L'osservazione potrà sembrare scontata, ma crediamo contenga un aspetto a nostro avviso decisivo per comprendere la sinuosa parabola storica dell'antisemitismo: la Shoah costituisce il punto di confluenza fra un'ideologia rivoluzionaria, l'antisemitismo, e la potenza organizzativa di uno Stato il cui carattere totalitario è quanto meno assicurato dalla capacità di declinare il tradizionale monopolio della forza in dispiegamento della violenza, che trova appunto alimento e giustificazione in un'ideologia rivoluzionaria. Al carattere impolitico della forza si sostituisce l'esercizio tutto politico di una violenza autorizzata da un'ideologia e finalizzata a realizzare propositi squisitamente ideologici. Gli spazi per l'impoliticità tanto cari allo Stato liberale — Stato impolitico per definizione, stando a Schmitt — non hanno più ragion d'essere. Senza uno Stato disponibile a declinare il monopolio della forza in una violenza alimentata e sorretta da un'ideologia totalitaria, non si avrebbe Birkenau.
Un antisemitismo senza Stato sarebbe rimasto una cultura politica agitatoria, protestataria e chiaramente antisistemica, non del tutto differente da altre già avvicendatesi sul mercato politico otto-novecentesco (si pensi alle dottrine politiche controrivoluzionarie) o dal movimento comunista in Occidente.
La difficoltà a riflettere sugli aspetti teorico-politici dell'antisemitismo è provocata dalla constatazione che un regime politico antisemita puro non si è mai affermato, essendo stato, lo stesso nazismo, anche quando scelse la strategia dello sterminio.
Abbiamo appena osservato che sul piano teorico-politico l'antisemitismo è invece pressoché tutto costituito, nel suo universo ideologico, nell'ultimo trentennio dell'Ottocento. Per essere più chiari, alla pari del marxismo, l'antisemitismo è un universo ideologico che, costituitosi nell'Ottocento, trova il suo terreno di applicazione nel secolo successivo; anzi, proprio come il marxismo, il suo radicalismo politico, già presente alla fine dell'Ottocento, anticipa il secolo dei radicalismi politici e degli stermini di massa quale misura politica più estrema e radicale.
Crediamo che questo approccio metodologico sia necessario soprattutto per delineare universi ideologici e politici radicali come l'antisemitismo. Si vedranno più avanti quelli che sono da considerare i limiti ideologici dell'antisemitismo nel suo rapporto col totalitarismo. Per ora è il caso di rilevare la necessità di valutare l'antisemitismo quale ideologia politica rivoluzionaria, il cui radicalismo non è dissimile da quello di altre ideologie, come il comunismo, affermatesi sul mercato politico del Novecento.
In questa sede lasciamo naturalmente irrisolti e sullo sfondo, fatti salvi alcuni cenni, i motivi per cui proprio il Novecento è stato «occupato» in parte significativa dalle ideologie politiche radicali. Semmai, è di una qualche utilità teorica rilevare come, essendosi venuto a costituire nel secolo precedente, l'antisemitismo ha ereditato una vocazione rivoluzionaria anche dalle altre ideologie, stabilendo un rapporto di concorrenzialità nei confronti delle altre ideologie rivoluzionarie.
Poniamo la questione in questi termini teorico-politici: il carattere politicamente radicale e rivoluzionario dell'antisemitismo è attestato dalle rampe di selezione di Birkenau; oppure queste ultime sono il risultato storicamente necessario di un universo ideologico vocato a quest'approdo (o che comunque non lo escludeva)? Per dire meglio: se Birkenau è il risultato criminale dell'intreccio fra antisemitismo e Stato totalitario (fra l'ideologia rivoluzionaria e la potente razionalità organizzativa dello Stato contemporaneo fattosi totalitario), quali percentuali di colpa sono da riconoscere all'uno, e quali all'altro?
La difficoltà di considerare l'antisemitismo quale universo ideologico complesso e politicamente radicale deriva non solo dai suoi esiti criminali; ma dalla constatazione che storicamente esso si è presentato quale ideologia politica indotta a «contaminarsi» con le altre, a cominciare dal nazismo e dal fascismo' . In altri termini, come nel caso del nazismo, dove finisce l'antisemitismo e iniziano le influenze degli altri aspetti ideologici del nazismo, quali, ad esempio, la dottrina del Lebensraum, il arherprinzip ecc.; e, per quanto concerne il fascismo, quali spinte a realizzare la rivoluzione antropologica dell'«italiano nuovo» fanno avvertire il loro peso nella scelta razzista e antisemita del 1938?
La storia delle idee politiche, come qualsiasi altro settore della ricerca storica, è chiamata a porre interrogativi, piuttosto che a evaderli; fermo restando che è anche tenuta a delineare il percorso analitico da cui quegli stessi interrogativi scaturiscono.