ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. Il centone classico-pagano
Il Christus patiens è una tragedia composta secondo il metodo del centone. Nell'antichità greca e latina si indicava propriamente con questo termine (cento, kentron) una coperta o un vestito che la povera gente di campagna si confezionava ricuperando, da abiti ormai sdruciti, scampoli e strisce di stoffa ancora buoni e cucendoli in modo da ricavarne un insieme multicolore, sul tipo del costume di Arlecchino. Per analogia venne designata con questo vocabolo qualsiasi composizione letteraria, regolarmente in poesia, che risultasse dalla connessione di frasi, versi ed emistichi detratti da un poeta antico e combinati per esprimere concetti e sentimenti nuovi. Il proposito di enunciare idee proprie con locuzioni altrui è però così innaturale, che non poté sorgere per impulso spontaneo, ma dovette cestire solo in determinate condizioni e germinare per speciali stimoli riflessi.
Sullo sfondo pare profilarsi l'attività degli aedi e dei rapsodi omerici, i quali mettevano volentieri insieme brani epici riutilizzando soprattutto versi o parti di essi desunti da predecessori, come già ci informa Eustazio. Si trattava comunque di componimenti nei quali tali riprese fungevano solo da ingredienti concomitanti, con una fisionomia non ancora ben individualizzata; ad un'azione artisticamente autonoma questo gioco arrivò solo quando si animò di un intento parodico.
L'ispirazione parodica continuò in epoca ellenistica, nella quale tuttavia essa si venne in parte perdendo, e il centone assunse sovente un carattere serio. Ne abbiamo degli esempi in alcune iscrizioni egiziane, tra le quali è largamente noto l'epigramma di Areio, uno dei dotti aggregati al Museo di Alessandria, il quale con quattro versi omerici ricordò il fenomeno della statua risonante di Memnone.
Naturalmente un tale tipo di composizione letteraria presupponeva uno scrittore di altissima ed universale rinomanza e di indiscusso prestigio, il cui linguaggio fosse assurto a canone pressoché assoluto dell'espressione stilistica: per la Grecia questo ruolo era ricoperto da Omero, come in Roma lo era da Virgilio. Abbiamo infatti anche una copiosa produzione di centoni in lingua latina; anzi in Occidente questo genere si acclimatò e prosperò poi più rigogliosamente che non in Oriente.
A giudicare dalle attestazioni superstiti, parrebbe che, in area Propriamente romana, la poesia centonaria si sia diffusa soprattutto nella seconda metà del II secolo dopo Cristo. Tertulliano, rammentando le manipolazioni a cui veniva sottoposto il testo di Virgilio, cita quell'Osidio seta che « succhiò interamente » da Virgilio la sua tragedia Medea e riferisce di quel suo parente il quale, tra gli altri suoi svaghi di letterato, aveva spiegato la « Tavola di Cebete » deducendone i versi dal poeta mantovano. L'apologeta cartaginese lascia appena trapelare una sfumatura di avversione verso quest'attività, fors'anche perché la vedeva circoscritta al mondo pagano. San Girolamo invece, che la riscontrava ormai trapassata a temi specificatamente cristiani, la condannò con la tagliente risolutezza che gli sappiamo congenita. Non siamo però sicuri che la stroncatura sia tanto obiettiva e meditata quanto decisa. Egli scriveva infatti quando giungevano al loro culmine di significato e d'arte tanto il centone pagano, con il suo carattere di trastullo ingegnoso e frivolo, quale ci è rappresentato dal Centone nuziale di Ausonio, quanto quello cristiano con il suo carico di serietà drammatica e di urgenza apostolica, quale ci è documentato dall'opera di Proba.
Il centone pagano non era in grado di giustificarsi se non come gioco di spirito che procurasse a persone di ben assimilate letture il brivido gioioso di un inatteso significato infuso in parole familiari. Era come la magia di scoprire un diverso panorama affacciandosi alla finestra consueta. Ma non poteva vivere al di là della sorpresa, come, se fosse stato percorso da un fremito di antipatia, al di là di una rapida beffa.
Per sua costituzione aveva il respiro breve, perché la sua natura artificiosa tendeva inesorabilmente a riemergere. Il brio non poteva protrarsi a lungo senza lasciar trapelare uno squallido sentore d'insulso. Ausonio aveva acutamente intravisto il pericolo.
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Prof. Giovannni Imbalzano il 4 febbraio 2011 alle 10:38 ha scritto:
Ottima catechesi.