Citazione spirituale

Il teatro dell'anima

di

Mariadele Orioli

 


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EAN 9788888287843

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Descrizione
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Tipo Libro Titolo Il teatro dell'anima Autore Editore Parva Edizioni EAN 9788888287843 Pagine 372 Data ottobre 2018 Altezza 21 cm Larghezza 15 cm
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Mariadele Orioli




IL TEATRO DELL'ANIMA
SOGNI E IMMAGINI,
ESPERIENZE ED EMOZIONI




Edizioni Parva
Prima edizione settembre 2018




©2018 Edizioni Parva
Via Paradello, 18
45037 Melara (RO)
Tel. 042589103
Indirizzo Internet: www.parva.it
E-mail: edizioniparva@parva.it

ISBN 978-88-88287-84-3
PRESENTAZIONE


Con questo testo, a mio parere, Mariadele Orioli, raggiunge
l'apice della sua produzione o, meglio, della sua riflessione.
Ho seguito questa singolare autrice fin dai suoi esordi, potendo
contare anche, per singolare privilegio, sulla sua conoscenza perso-
nale. Iniziai a leggere le sue opere sul mondo dei sogni, poi i suoi
'colloqui' a forma di Diari, fino all'importante testo sulla guari-
gione del corpo partendo da quella dello spirito.
In questo ultimo lavoro, costato tempo e fatica, Mariadele Orioli
entra ancora più nel profondo, e scandaglia il mondo interiore
dell'uomo come mai aveva fatto prima. È proprio vero: con il tem-
po, se si rimane fedeli, l'intelligenza illuminata dalla fede coglie
sfumature e angolazioni persino inaspettate. Non si finisce mai di
imparare, di approfondire, di studiare. Evidentemente il mondo in-
teriore è la 'passione' dell'autrice, che partendo dallo studio
dell'animo umano risale fino alla contemplazione del suo Creatore,
che dichiaratamente è Dio Padre-Figlio-Spirito Santo: Mariadele
non nasconde la sua fede cattolica, pur non prendendola come pre-
testo per la sua indagine e analisi.
L'oggetto di questo studio è l'uomo, nel suo sviluppo interiore.
L'uomo, qualsiasi uomo, di qualunque fede o credo egli sia.
Strutturalmente ogni uomo ha un mondo interiore nel quale vive,
progetta, decide, si disvela.
Un uomo che non entra mai in se stesso rimane in superficie, an-
zi, peggio, fugge dalla realtà.
E nella modernità - complici anche gli abnormi ed incontrollati
sviluppi della comunicazione telematica - l'uomo facilmente fugge
da sé stesso, come pauroso di confrontarsi con le proprie potenzia-
lità spirituali ed emotive alla luce della verità.
Senza questo ingresso nel mondo interiore, l'uomo perde sé stes-
so, prima che Dio, e, se smarrisce sé stesso, è destinato fatalmente
alla dissoluzione, alla morte dell'anima.
Con la singolare immagine del 'teatro interiore', secondo
l'autrice l'uomo contempla quello che succede quando pensa: egli


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è veramente padrone di sé stesso e delle proprie emozioni, si cono-
sce, si arricchisce. Le immagini interiori continuano a svilupparsi
nel nostro mondo reale anche di notte (quello dei sogni e del sonno
è un tema decisamente amato dalla nostra scrittrice'): sembra che
il cervello e il cuore, liberi dai legami della coscienza, producano
durante il sogno delle immagini parlanti che ci maturano e ci fanno
crescere, senza contare il fatto che nella Bibbia il sogno è sovente
strumento di comunicazione certa tra Dio e l'uomo.
Era ora che qualcuno ci liberasse dalla schiavitù di Freud, che
sembra essersi impossessato del mondo onirico fino a diventarne
l'indiscusso maestro e quasi unico interprete, guru conclamato ed
intoccabile del settore. Non si nega che ci possa essere del vero ne-
gli studi del padre della psicanalisi, ma la sua dottrina non può es-
sere esaustiva. Lo studioso austriaco nega radicalmente Dio, nega
la creazione, nega il fatto, per dirla con un esempio improprio, che
il 'brevetto' della creazione dell'uomo ce l'abbia Dio.
Ed estirpando la creatura dal Creatore, necessariamente si studia-
no i fenomeni semplicemente nel loro mostrarsi, come dati empiri-
ci, ipotizzando cause ed effetti remoti (traumi dell'infanzia, il
mondo della sessualità, eccetera) che non escono dall'orizzonte
storico-temporale.
Nella nostra autrice invece lo studio delle immagini e dei sogni rive-
la una struttura assai più profonda, nell'uomo: la sua dimensione me-
tafisica, spirituale, originaria. Ecco la differenza che si avverte imme-
diatamente leggendo il testo: non vi è mai un senso opprimente di an-
goscia, di schiavitù, di rovina; si respira invece un rinfrescante senso
di liberazione, di filiazione, di verità, che avvince anche il non creden-
te. Già, perché anche l'ateo (o il presunto tale) è consapevole di non
conoscere fino in fondo se stesso, ed ammette - se è intellettualmente
onesto - con Pascal che 'l'uomo trascende infinitamente se stesso'.

Il dialogo interiore con Dio - e qui salta fuori necessariamente la
Mariadele cristiana - è preghiera, è affidamento e amore.
Ma non possiamo pregare se non facendo ricorso alle immagini,
perché queste ci costituiscono. Un 'puro pensiero' senza forma,



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non esiste. L'uomo parla per immagini, pensa usando la fantasia in-
teriore, e con questi mezzi parla pure con Dio, ossia prega.
Sant'Ignazio di Loyola invita i cristiani ad usare le categorie del-
la fantasia, a 'costruirsi' interiormente i luoghi nei quali immagi-
nare Dio. Dio infatti ha preso carne, ha avuto un tempo storico, è
nato in una grotta, ha camminato in riva a dei laghi, è morto su una
croce, è risorto uscendo da un sepolcro. È vero che Gesù ci invita
ad andare al Padre 'che nessuno ha mai visto', ma è anche vero
che Egli si pone come via e mezzo insostituibile: non si va al Padre
se non per mezzo del Figlio. Per questo dalle immagini non pos-
siamo prescindere, e per questo motivo probabilmente la Provvi-
denza divina ci è venuta incontro lasciandoci come reliquia straor-
dinaria il volto del Cristo, la sua vera immagine: la Sindone.

Ci chiediamo: tutto questo riguarda solo il cammino dell'uomo
con se stesso o, tutt'al più, con l'Eterno, con il divino'
Niente affatto: l'uomo che conosce pienamente se stesso scopre
in sé quell'Io siamo (è il titolo di un originalissimo capitolo di que-
sto libro) che pure lo costituisce. L'uomo scopre di non essere mai
solo, perché nel suo mondo interiore vi sono sempre altre persone,
uomini e donne, situazioni, persone, che a loro volta sono dei mon-
di in relazione. In sé, allora, l'uomo scopre di essere pura relazione,
tant'è vero che tutte le gioie le ha nelle relazioni sane e serene col
prossimo e tutte le pene le vive nei rapporti guasti e perversi con
l'altro.

Ed ecco il messaggio finale, puro, cristallino: l'uomo è e si cono-
sce recuperando quell'io sano, interiore, che ha resistito ad ogni as-
salto del male, mettendolo in comunicazione umile e docile con
Dio, che egli può conoscere con un atto di fede e di ragione (le due
realtà non sono in contraddizione, ma complementari e perfetta-
mente in sintonia tra loro) e di conseguenza con il prossimo, in una
relazione rinnovata e pacificata col mondo esterno.
Non potremmo amare il prossimo (sovente assai poco amabile) se
non possediamo noi stessi, se siamo noi stessi destrutturati, crollati,
falsi.


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Così l'aquila (uno dei simboli più amati dall'autrice) torna a vo-
lare, e salendo alle alte quote dei cieli tersi e ossigenati, contempla
e 'vede' Dio nella propria anima, purificata dall'umile atto di fede
e di accoglienza, e quando torna a terra si accorge che il Regno di
Dio è nel sorriso del bambino, nel bisogno dell'anziano, ma anche
nei peccatori che non riescono ad essere felici, intrappolati dalle
schiavitù delle proprie passioni. Proprio nell'atto di amore l'uomo
ricostruisce la sua vera essenza, perché l'amore è potenza.

Insomma, questo libro è un itinerario di liberazione, straordina-
riamente lirico, moderno, attuale. Un antidoto contro il mondo del-
le immagini violente, rozze e brutali che ci vengono mostrate in
continuazione. Il vero 'internet' è quello interiore, e l'uomo ce l'ha
da sempre, perché da sempre egli è connesso con il Creatore, se
non altro attraverso la natura e la semplice esistenza.
L'internet moderno costruito dall'uomo tenta di strapparci la
connessione divina interiore, e noi abbiamo bisogno di resistere a
tale minaccia.
Questo testo è una catechesi, un'istruzione, una confessione au-
tobiografica di chi, da anni e con tante esperienze e sofferenze, ha
trovato la chiave per liberare sé stessa. E vi è riuscita.
Non resta che augurare lo stesso risultato a chi si appresta a ini-
ziare la lettura.

p. Serafino Tognetti

Casa San Sergio, maggio 2018




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Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato una bellissima
famiglia, mi hanno testimoniato la forza della loro fede sen-
za compromessi e il loro coraggio di vivere per Cristo, e mi
hanno dimostrato che con Lui, liberi da ogni conformismo, è
possibile realizzare i sogni più grandi.

Grazie a mio marito, il mio straordinario partner di scena e
il prezioso 'produttore' delle rappresentazioni teatrali dei
miei libri.

Grazie a tutti coloro che, dopo aver letto i miei libri, mi
hanno comunicato le loro riflessioni e mi hanno chiesto
chiarimenti e confronti, perché in tal modo, insieme con gli
autori della lunga bibliografia finale, mi hanno donato le lo-
ro idee, mi hanno stimolato ad approfondire le mie, mi han-
no offerto incoraggiamenti e provocazioni, e mi hanno dato
la possibilità di conoscere meglio la mia anima e di renderla
più coraggiosa e più libera.

Grazie a tutti coloro che hanno dato e danno la vita per aiu-
tarmi a volare.




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PREFAZIONE


Questo è il terzo volume di una trilogia che si è sviluppata nel
tempo in base all'evoluzione delle mie esperienze e dei miei pen-
sieri, e alla luce della mia fede.
Ogni libro che scrivo nasce dal bisogno di donare e condividere
qualcosa che mi ha rivelato sempre più concretamente il senso del-
la mia vita e che perciò mi ha aiutata a vivere in modo più gratifi-
cante: se le mie esperienze potessero essere utili anche ad una sola
persona, la mia fatica di espormi non sarà stata inutile.
Il presupposto fondamentale è la mia fede in un Dio che è il valo-
re della mia vita. Credo in Lui non come fosse una vaga entità su-
periore indifferente e impersonale, o un'indistinta divinità in cui
perdermi, o un tappabuchi che mi serve per tamponare le mie lacu-
ne, o un'illusione che mi aiuta a sopportare il presente proiettan-
domi in un domani utopicamente gioioso, o semplicemente una co-
struzione ideologica, una teologia astratta, una filosofia elaborata
su misura dell'uomo per farlo sentire meglio.
La mia fede non è un'eredità che indosso e che non fa parte di
me, non è una tradizione superficiale, un'abitudine, una supersti-
zione ormai fuori tempo; non è una scappatoia, un espediente per
non affrontare i problemi, un tentativo di dare uno scopo al mio vi-
vere, una stampella su cui appoggiarmi per rimanere in piedi.
Sono inoltre convinta che gli 'atei' non esistano, perché
l'esistenza ci pone troppe domande a cui non si è in grado di ri-
spondere (ci si riuscirà forse domani' mah, pare che più si fanno
scoperte più aumentino le domande'). Sono troppi i misteri
dell'uomo, dell'umanità intera e del mondo, troppe le 'assurdità'
della vita, e tutti abbiamo bisogno di credere in un qualcosa di cui
fidarci, un qualcosa su cui contare, un qualcosa che ci rassereni un
po' e dia un senso a questo difficile esistere e al nostro innato ane-
lito all'infinito. Penso perciò che anche gli atei abbiano una loro
'religione', e che chiamino con diversi nomi il loro dio, ossia tutto
ciò in cui cercano un senso per la loro vita (umanesimo, filantropi-
smo, politica, cultura, scienza, economia, salute, benessere, fortu-


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na, prestigio, status sociale ecc.); un dio che gratifica, anche se solo
in superficie; un dio che colma qualche vuoto, sebbene soltanto
epidermico. Un dio piccolo, che non sa rispondere alle domande
più segrete e difficili e non soccorre nessuna solitudine.
Io credo in un Dio che ha preso un corpo e si è fatto uomo, un
Dio-Uomo che si è lasciato umiliare e uccidere ingiustamente per
amore e che è risorto con il corpo; un Dio che esiste ancora come
'uomo', e che ancora condivide la mia stessa umanità. Un Dio che
è rapporto concreto e personale con me: il Dio di Gesù Cristo.
Questo Dio-Uomo colma ogni mio abisso e risponde a tutto.
A pensarci bene è veramente una follia credere in un Dio che si è
umiliato incarnandosi, e si è lasciato crocifiggere come il peggiore
dei criminali. Che senso ha credere in un Dio così debole e perden-
te' Che Dio è, questo' Come si fa a fidarsi'
E se questo Dio così assurdo è soltanto una costruzione utile a far
stare meglio, come si fa a inventarsi una religione così negativa'
Come può farti stare meglio un Dio umiliato che muore in croce e
ti dice: 'Prendi anche tu la tua croce e seguimi'' Non ti invita
semplicemente a sopportare (questo te lo dicono certi preti), ma a
prendere, ad accogliere, ad accettare e a portare la tua croce.
Come può farti stare meglio un Dio che ti esorta a condividere
tutto di te, ciò che possiedi e ciò che sei, e ti chiede di 'dare la vita'
senza risparmiarti, e di 'amare i nemici', un Dio insomma che pre-
tende che anche tu, come ha fatto Lui, ti metta a disposizione di
chiunque e ti lasci 'mangiare' da chiunque, e ti dice apertamente
che seguire Lui implica l'umiliazione, la derisione, la persecuzione,
il martirio'
'Oppio dei popoli', diceva quello (e non solo lui).
Soltanto perché oltre quella 'porta stretta' ti si prospetta una mi-
steriosa felicità eterna che puoi ottenere se accetti di subire qui
ogni ingiustizia' soltanto perché l'inverosimile promessa di un
premio altrettanto inverosimile ti impedisce di sollevare la testa'
Ma un Dio che sulla terra ha fallito, che garanzie può darmi in-
ventandosi un cielo' Insomma, non regge'
E poi il punto è arrivarci, a questo ipotetico cielo'



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Se le condizioni sono queste, meglio star bene qui, su questa terra
che tocco, in questo presente che vivo, o almeno starci come me-
glio posso.
Quale filosofo intelligente avrebbe potuto inventarsi una religio-
ne tanto insensata e così contro natura'
Che Dio è, costui' Me lo sono chiesto per tanti anni.
Perciò: o non è vero niente, o a crederci si è davvero dei folli.
Il salto nell'assurdo, nel vuoto e nel buio, può farlo soltanto un
folle (dal Rinascimento in poi si è saltato sempre meno' E non mi
sembra che l'uomo sia diventato più felice e migliore).
Eppure è la condizione: saltare oltre.
Sfidi ogni logica, salti nel vuoto, rischi tutto, e' voli.
Sì, voli!!! Eccome se voli! Voli in Lui, nell'Aquila.
E non voli con l'immaginazione, voli con la vita.
Ti butti nell'assurdo, ti giochi il tutto per tutto'
E tutto cambia, tutto si trasforma, o meglio: si trasfigura.
Nessuno può convincerti di questo, devi provarci.
Devi giocarti tutto. E poi voli'
Io l'ho sperimentato, anche se in queste cose niente è mai defini-
tivo' Perché spesso cadi ancora, ma poi ti rialzi e ricominci.'
E scopri (ed è un'avventura continua, una conquista continua, an-
che se sempre imperfetta e provvisoria, sempre in evoluzione) che
in Gesù Cristo il tempo e lo spazio non esistono, che siamo tutti
contemporanei e tutti presenti. In Lui tocchi l'infinito.
E non è un'illusione, o una forma di compensazione.
Non si tratta nemmeno di dimensioni emotive, perché la storia mi
entra dentro tutta, concretamente, e non posso non condividere,
perché tutta fa parte di me, e non posso non condividermi, perché
appartengo alla storia.
Tutto questo è razionalmente assurdo, umanamente inconcepibi-
le, perciò teoricamente fantastico e illusorio.
Tutta la mia fede è assurda, se rimango ancorata agli schemi della
mia logica umana. Eppure, per quanto incomprensibile, non è
astratta, perché il Gesù in cui io credo non è una religione, non è
una filosofia, non è una teoria: è una Persona reale, e la mia fede è
il rapporto personale, concreto e ininterrotto, con questa Persona.


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Questo mi risolve un sacco di problemi, e dà senso a tutto (dico
proprio 'tutto', sofferenza e morte comprese).
Che poi umanamente io viva le difficoltà di certe situazioni è na-
turale e inevitabile; che in certi momenti mi ritrovi al buio è ovvio.
La fede non è facile, non è che la decidi una volta per tutte, non è
che la acquisisci e la possiedi per sempre, come fosse un'ideologia
o un bene ottenuto; niente affatto. La fede è un'avventura affasci-
nante, e te la conquisti momento per momento, ti batti per conser-
varla anche quando tutto crolla, per voler credere 'sperando contro
ogni speranza' (Rm 4,18), contro tutto e contro tutti, ed è un com-
battimento duro, ma esaltante.
Dovrai attraversare momenti di buio, sì, ma prima o poi il buio
finisce, e torna la luce. Magari solo per poco, chissà' E vai avanti
così, anche nella tempesta, anche cieco, con le tue paure e le tue
ansie, che però si fanno sempre meno angoscianti, e nel profondo
stai sempre più 'in pace'. Sei nella gioia di esistere, anche quando
piangi, perché sperimenti che la vita è un dono prezioso, e ti fidi.
Questa fiducia intima è inspiegabile ed inestimabile.
Questa pace non te la può dare umanamente nessuno, mai.
E, soprattutto, niente e nessuno potrà mai portartela via.
Vivo nella certezza (non sempre facile o consapevole) che non
sono mai sola, e che al mondo ed in me non esiste niente, ma pro-
prio niente, che non abbia un senso.
Se chi non crede mi dice che vivo nell'illusione, in un mondo di
astratte fantasie, rispondo che, comunque sia, vivo bene.
E se la filosofia può tentare di dimostrare che le mie parole val-
gono quanto le parole di chi non crede, che la mia fede è indimo-
strabile come la sua non fede, io sostengo che, ad un certo punto,
credenti e non credenti saremo costretti a fermarci di fronte alla
dimensione impenetrabile di tante realtà inaccessibili, incompren-
sibili ed inconoscibili.
Certo io non lo capisco il senso misterioso di tanti momenti della
mia vita e la profondità oscura di tante situazioni; non lo comprendo,
ed è sempre fatica accettare ciò che non si capisce; ma so che in que-
sto Dio, oggi ritenuto ormai superato e inutile, se non addirittura in-
gombrante, tutto ha un senso; ne ho l'intima certezza, una certezza


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non razionale ma esistenziale, che custodisco con tutta la mia volon-
tà, perché ora so che questa fede è la mia forza invincibile, e mi è di-
ventata indispensabile per vivere, e a volte addirittura mi basta.
Solo compensazioni, le mie' utopie per sopravvivere'
Ovviamente credo di no, in ogni caso sono certa che io avrò vis-
suto meglio di chi queste 'fantasie' le ha disdegnate.
Tutto questo sembrerebbe comportare un conflitto con l'imposta-
zione razionalistica. Ma, secondo me, non è così. La ragione è una
fondamentale peculiarità dell'uomo, e sicuramente va utilizzata al
massimo. Ciò che ritengo pericoloso, perché limitante, è fare del
razionalismo una religione, il fondamento della vita.
Per il mio modo di sentire, lasciarsi imbrigliare dalle regole della
logica schiavizza, pone troppe condizioni, troppi limiti, troppi fre-
ni, troppe regole che sfociano nel materialismo e, benché questo of-
fra certezze, perché la materia si può controllare e la fisica si può
indagare, ci si ritrova però invischiati negli schemi, condizionati da
troppe sentenze, rinchiusi in troppe gabbie, bloccati da troppe cate-
ne, ciechi di fronte alla sostanza imperscrutabile della vita. Se fai
del razionalismo il criterio della tua vita, se fai del materialismo la
tua religione, le loro leggi ti annientano.
La razionalità non va affatto esclusa, anzi; non va sottovalutata e
neppure sopravalutata: va assunta per ciò che è, per servirsene con
libertà, senza esserne succubi, per poi andare oltre.
La ragione non è una dimensione assoluta, e nemmeno preminen-
te; è importantissima ma non è l'unica, non basta a se stessa, è
condizione necessaria ma non sufficiente.
Inoltre non credo assolutamente che noi siamo soltanto una que-
stione di biochimica. Assolutamente no. I miei pensieri, i miei sen-
timenti ecc. non sono fisici, sebbene nascano dalle esperienze che
faccio anche con il corpo, dalle mie relazioni, dalle situazioni, dalla
mia cultura, dalla mia personalità, dall'educazione che ho ricevuto,
e anche dalle mie condizioni fisiche.
La scienza scopre sempre nuove e affascinanti abilità del cervello
e una stupefacente specializzazione delle sue aree e delle sue cellu-
le, ma i misteri restano. La scienza inoltre si affida ad un dio che
cambia continuamente volto - ed è giusto che sia così, perché se


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esiste il progresso ciò è inevitabile. Sta di fatto che la scoperta di
oggi contraddice quella di ieri, e la verità di oggi probabilmente
non è più la stessa di domani, forse tornerà a esserlo dopodomani,
chissà, e si procede sempre tra affermazioni e smentite e scoperte e
riscoperte' Ed è ovvio che sia così. Deve essere così.
Certamente la scienza ha i suoi eroi e i suoi martiri, che spendono
la vita per contribuire al progresso dell'umanità.
E sia ringraziato Dio, per questo impegno umano.
Ma nessuna scienza potrà darmi le risposte più profonde e più
esistenziali che mi premono dentro; ci prova, certo, ma nessuna di
queste risposte può appagarmi veramente. Nessuna.
Senza nulla togliere alle teorie e alle scoperte della scienza (ci
mancherebbe!), la mia fede mi porta ad andare non semplicemente
'sotto' le apparenze, 'sotto' la superficie delle cose, ma mi spinge
oltre: oltre ogni superficie soltanto fisica, oltre ogni apparenza
esteriore, oltre ogni definizione puramente razionale, oltre ogni ca-
tegoria circoscritta all'aspetto pratico o scientifico.
Per sentirmi intimamente appagata devo continuamente andare
oltre, cioè penetrare sempre più in profondità, con la volontà più
che con la ragione, soprattutto con il cuore più che con l'intelletto,
per intelligere, cioè per 'comprendere' e 'conoscere', nel senso
delle parole di San Paolo: 'Il Cristo abiti per la fede nei vostri cuo-
ri e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di compren-
dere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e
la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni co-
noscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio' (Ef 3,18-
19). 'Che sorpassa ogni conoscenza'...
Le risposte che trovo oltre le funzioni del cervello e oltre i confi-
ni della conoscenza sperimentale sono sicuramente discutibili e as-
surde per la scienza, perché non dimostrabili, troppo campate in
aria, troppo fantasiose. Effettivamente, l'esistenza dell'anima spiri-
tuale non si può dimostrare in laboratorio, tanto meno si può dimo-
strare l'esistenza di Dio, come d'altronde non si può dimostrare
nemmeno la sua non-esistenza. Quindi'
Pur rispettando la chimica, la fisica, la biologia, la fisiologia, le
neuroscienze ecc. io mi fido di un Dio infinito e onnipotente, che si


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è incarnato per amore e vive nel creato e dentro di me, 'diviniz-
zandomi'. È questo che mi porta oltre. Questo è l'oltre.
E poiché credo questo, sono rimasta delusa dagli atteggiamenti di
certa Chiesa che, forse per adeguarsi ai tempi e non apparire troppo
ingenua e sprovveduta, da un lato afferma teologicamente
l'onnipotenza di Dio, ma dall'altro, nella pratica, le pone dei limiti,
la adatta ai criteri di oggi, al nostro buonsenso di oggi - quindi in
un certo senso la mette in dubbio - come se oggi l'uomo avesse il
potere di gestire anche Dio, come se oggi Dio non fosse più libero
di essere onnipresente e onnipotente nella nostra realtà di 'moder-
ni' e nella nostra vita quotidiana così tecnologica.
Tra l'altro, mi aveva disturbato sentir ripetere dal pulpito che i
sogni sono fenomeni soltanto psicologici e che cercare di attribuir-
vi un senso religioso è un'ingenua credenza popolare.
Poiché ho sempre fatto dei sogni molto significativi che costitui-
vano per me esperienze vere e proprie, perciò anche determinanti
per la mia vita, e soprattutto poiché la Sacra Scrittura è costellata di
sogni, ho cercato di approfondire questo argomento perché era evi-
dente che qualcuno si sbagliava: Dio o i preti' Dio o gli scienziati'
A chi credere'
Il libro 'Io dormo, ma il mio cuore veglia' (2000) è il frutto di
questa mia ricerca sui sogni notturni che per me, cristiana, non pos-
sono e non devono avere un significato e un valore sempre e sol-
tanto psicologico, 'umano'. Verificavo così che, contrariamente a
quanto sostengono le Scritture, nella Chiesa c'è disagio e imbaraz-
zo di fronte a questo argomento; una reticenza, se non addirittura
una chiusura decisa nei confronti dei sogni, come fossero un tabù
pericoloso, in balia di pagane interpretazioni psicanalitiche o perfi-
no una minaccia di superstizione.
Ho cercato di affrontare questo argomento nel modo più libero e
aperto possibile, per ritrovare quella dimensione religiosa e cristia-
na che i sogni hanno sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento,
pur senza sottovalutare o ignorare le teorie scientifiche.
E poiché ogni libro che scrivo è un'esperienza che mi rivela a me
stessa, affrontare il tema dei sogni mi ha portato ad allargare
l'orizzonte e a prendere in considerazione una dimensione di me


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che mi appartiene profondamente da sempre: l'importanza delle
immagini. Ho iniziato così una ricerca che mi ha guidata in un
viaggio interiore da cui è nato 'L'Aquila screziata di rosso'
(2014). Scrivere quelle pagine è stata un'esperienza fondamentale,
che ha fatto luce nella mia vita intima rivelandomi realtà di cui non
ero ancora consapevole. Quando ho cominciato a scrivere, ovvia-
mente sapevo benissimo di cosa intendevo parlare, e cioè
dell'importanza vitale di essere una 'rappresentazione' autentica di
me stessa, ma non avevo la minima idea di come avrei sviluppato
l'argomento. Immagini e pensieri sono cominciati a fluire quasi a
sorpresa man mano che scrivevo, e non solo senza che potessi pre-
vedere come si sarebbe sviluppato quel viaggio dentro di me, attra-
verso ricordi, avvenimenti, incontri, sogni, immaginazioni, desideri
ecc., ma nemmeno supponendo dove mi avrebbe portato.
Un'esperienza davvero singolare, che ha ulteriormente ampliato il
mio interesse per le immagini: sogni notturni, sogni ad occhi aperti,
fantasie, e tutte le immagini del mondo e della storia che oggi ci
invadono sempre più aggressivamente dall'esterno.
Il fatto più rilevante è stato che il termine di quel viaggio mi
apriva un orizzonte inatteso; l'arrivo si rivelava un nuovo punto di
partenza; la fine di quel cammino si rivelava l'inizio di una nuova
esplorazione che mi si imponeva con un'urgenza sempre più forte.
E così nel 2016 ho intrapreso un'altra ricerca che mi ha guidato
in un viaggio ancora più affascinante e mi ha fatto scoprire realtà
inesplorate attraverso l'anima delle immagini.
La lunga bibliografia che ho inserito non è un'esibizione di cultu-
ra, affatto: è parte integrante del mio viaggio. Si tratta di incontri
con gli autori che, attraverso le loro opere, mi hanno offerto con-
ferme dei miei pensieri, stimoli per approfondirli o provocazioni
per meglio chiarirli a me stessa, e che perciò hanno contribuito ef-
ficacemente ad alimentare e sviluppare il soffio vitale delle mie
immagini, l'anima del mio 'teatro'.
Il punto di partenza era il bisogno di approfondire il mio rapporto
con le immagini, partendo dal presupposto che le immagini ci av-
volgono, ci penetrano e ci nascono dentro, ci influenzano la vita e
plasmano la nostra anima; soprattutto, le immagini costituiscono la


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realtà del nostro io, durante la notte e durante il giorno, quando
dormiamo e quando siamo svegli, perché contribuiscono a model-
lare la nostra vita interiore e anche la rivelano, in quanto sono in-
terpretazioni del mondo esterno come noi l'abbiamo recepito ed
elaborato, perciò sono manifestazioni della nostra essenza.
Ho desiderato condividere i miei pensieri sul valore delle imma-
gini e la mia 'scoperta' sull'importanza di appropriarsi delle im-
magini come di realtà vive, non solo come strategia per costruirsi
un'anima sempre più consapevole e libera di rivelarsi anche attra-
verso allegorie, simboli, metafore, ma anche per poter entrare in
contatto con gli altri tramite l'anima e, così svincolati dai limiti del
corpo fisico per sublimarlo ('Il corpo è vita', ha detto il filosofo
Emmanuel Levinas), intervenire concretamente nella storia.
Ho voluto condividere la mia 'scoperta' della bellezza di 'rap-
presentarsi', cioè di fare teatro davanti a Dio e davanti al mondo,
la grandezza di essere teatro, teatro autentico, libero, teatro audace
per il coraggio di mostrarsi come si è, emancipati il più possibile
dalle regole sociali e dai condizionamenti fisici e personali, senza
con questo ledere la libertà degli altri, tutt'altro: diventare liberi di
essere ciò che si è per compiere se stessi e prendersi cura dell'altro,
partecipando efficacemente alla vita del mondo.
E così eccomi a completare un pellegrinaggio interiore iniziato
per il bisogno di trovare risposte a certe provocazioni sulla banalità
dei sogni, proseguito allargando lo sguardo sulla mia esperienza
personale in cui i sogni della notte si intrecciano con le immagini
del giorno e rappresentano il mio bisogno di diventare veramente
cristiana nel grembo di un'Aquila infinita, ed infine approdato sulla
riva di un nuovo oltre, dove esprimo, fuori da ogni metafora, quan-
to ho concretamente sperimentato e intimamente vissuto, ciò che
ho compreso ed in cui sempre più fermamente credo, cioè il senso
definitivo dell'essere teatro e la volontà di riuscirci.
Un viaggio che sicuramente non è concluso, perché lo scenario
della vita è sempre imprevedibile e gli itinerari del cuore sono in
continua evoluzione, ma che desidero condividere come una mia
esperienza intensa e positiva. E se mi soffermo un po' troppo sui
momenti oscuri, non è perché pensi che la vita sia soltanto 'una


17
valle di lacrime', anzi, la vita è bellissima e preziosa sempre, anche
nei tempi di buio. Penso però che nessuno ha bisogno di suggeri-
menti per vivere la gioia, mentre tutti abbiamo bisogno di aiuto e di
sostegno quando siamo in difficoltà e, se non vogliamo sprecare
neppure un istante della nostra esistenza, dobbiamo trovare un sen-
so anche alle situazioni più difficili.
Nessuno cerca la sofferenza, assolutamente. E se non sempre la si
può evitare, c'è modo e modo di viverla. La soluzione non è igno-
rare il dolore e fingere che 'va tutto bene'; non è subirlo e lasciar-
sene schiacciare; non è neanche 'sopportarlo', ma è scoprirne un
senso per trovare il modo di non soffrire a vuoto, di non soffrire
'per niente'. Il punto allora è come vivere la sofferenza: nella ribel-
lione, o con sopportazione, o come offerta.
Poiché ho trovato per me un modo per valorizzare ogni circo-
stanza della mia vita, compreso il dolore, ho sentito il bisogno di
condividere la mia esperienza. Con l'augurio che per nessuno ci
siano sofferenze inaccettabili e momenti negativi da cancellare, e i
sogni di nessuno rimangano confinati nella notte, e per nessuno le
immagini del giorno rimangano vuote fantasie, e i ricordi e i desi-
deri inutili distrazioni, e le relazioni con gli altri problemi da schi-
vare, affinché in ognuno tutto possa rigenerarsi di continuo, acqui-
stare un senso sempre nuovo, un valore sempre nuovo, e recuperare
la bellezza e l'armonia dell'unità perduta.




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PRIMA PARTE
IO DORMO, MA IL MIO CUORE VEGLIA



Sono io il Signore vostro Dio.
Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo,
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni.
(Gioele 2,27; 3,1)
PERCHÉ TEATRO


Perché teatro' Perché lo facciamo tutti, in ogni momento.
Siamo tutti registi e attori della nostra vita, nel tempo della veglia
e durante il sonno, immersi nelle immagini e artefici noi stessi di
immagini, protagonisti del nostro teatro e spettatori del teatro degli
altri, tutti interpreti dello spettacolo messo in scena dal nostro esi-
stere.
Inizio la mia ricerca da qui, da un'analisi generale del teatro, non
certo per dare un tono culturale alle mie considerazioni, ma per
comprendere meglio me stessa e approfondire i miei pensieri, le
mie percezioni, le mie esperienze.
Il termine 'teatro' deriva dal sostantivo greco théatron, che si-
gnifica 'spettacolo, visione', ma anche 'luogo destinato agli spet-
tacoli, laboratorio', e dal verbo théaomai, ossia 'vedo, contemplo,
considero, mi meraviglio, gioco', quindi indirettamente anche
'mostro, mi mostro' (epiphàino), in quanto io vedo e guardo qual-
cosa che mi viene mostrato, e gli altri vedono e guardano ciò che io
mostro e come mi mostro.
Teatro è la rappresentazione di un dramma.
Anche il termine 'dramma' deriva dal greco dràma, 'azione, ge-
sto, comportamento', sostantivo che a sua volta deriva dal verbo
drào, 'agisco, faccio, opero, compio'; 'dramma' quindi significa
azione, movimento.
Il teatro è dunque uno spettacolo, un'esibizione, la messa in sce-
na di una storia. Il teatro, come io lo intendo, è la rappresentazione
di noi stessi e della nostra storia.
Una rappresentazione teatrale è una relazione con l'altro, perché
si svolge davanti ad un pubblico che guarda, suscitando pensieri ed
emozioni e trasmettendo suggestioni attraverso parole, gesti, musi-
ca, danza, vocalità, suoni, colori ed ogni altro elemento espressivo
utile a comunicare ciò che si rappresenta.
Il movimento del corpo in uno spazio, eseguito di fronte ad uno
spettatore, è già di per sé teatro, perché il teatro si verifica ogni vol-
ta che esiste una relazione tra un attore che agisce dal vivo in uno


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spazio scenico e uno spettatore che dal vivo ne segue le azioni.
Etimologicamente, il termine attore significa 'colui che agisce':
l'attore è la parte attiva di una rappresentazione; lo spettatore è
'colui che guarda', che assiste alla rappresentazione; il palcosceni-
co è lo spazio in cui l'attore si muove e in cui si allestiscono gli
elementi della scena; la scena è la rappresentazione del 'paesag-
gio', dell'ambiente in cui l'attore interpreta il suo ruolo.
Teatro è la nostra vita: noi nasciamo, cresciamo, ci muoviamo,
parliamo, compiamo azioni, moriamo sul palcoscenico del mondo,
davanti a chi ci vede e ci guarda, intessendo relazioni con le perso-
ne, con la natura, con le cose, e vivendo ruoli diversi.
Il grande critico teatrale Silvio D'Amico (1887-1955) ha definito
il teatro come 'la comunione di un pubblico con uno spettacolo vi-
vente'. Ognuno di noi è realmente uno 'spettacolo vivente' nello
spazio scenico del mondo. Ed ognuno di noi vive 'in comunione'
con gli altri. D'Amico aggiunge: 'Il teatro vuole l'attore vivo, che
parla e agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo
senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore, for-
tificato dal consenso o combattuto dall'ostilità degli uditori parte-
cipi, e in qualche modo collaboratori'.
La nostra vita è inevitabilmente vincolata alla vita degli altri e al
mondo, condizionata dalle nostre relazioni con gli altri e con il
mondo, influenzata dal consenso o dal rifiuto che riceviamo o che
offriamo.
Il teatro si compie in ogni luogo dove sia possibile realizzare la
rappresentazione di una storia attirando l'attenzione di un pubblico.
Anche noi, nel nostro quotidiano, non possiamo evitare di 'rappre-
sentarci', di 'mostrarci' e di 'mostrare' la nostra storia in un am-
biente ben preciso (luogo geografico e luogo sociale, cioè famiglia,
amici, lavoro), e abbiamo anche una certa libertà di scegliere alcuni
spazi (tempo libero, volontariato, hobbies, vacanze ecc.).
Ovunque e sempre, tutti, facciamo teatro.
Non solo perché ovunque e sempre 'viviamo', ma anche perché,
pur se non ci fosse nessuno che ci guarda, il nostro vivere è sempre
e comunque in funzione di chi potrebbe vederci o guardarci. Se non
altro ci vediamo noi stessi, ci sentiamo controllati dal nostro Super-


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io (cioè dalla nostra coscienza), o semplicemente ci misuriamo con
l'idea che abbiamo di noi.
Se poi siamo cristiani, sappiamo che il Cielo è affollato di spetta-
tori invisibili che assistono e partecipano ininterrottamente alla no-
stra interpretazione della vita.

Gli elementi essenziali di un evento teatrale sono: la scelta di una
forma (il personaggio o la maschera); la definizione di uno spazio
nel quale tale forma possa agire (il palcoscenico, tradizionale o im-
provvisato); il tempo dell'azione.
Se queste sono le condizioni del teatro inteso come forma d'arte,
la nostra vita corrisponde pienamente a queste regole: ci costruia-
mo il personaggio che vorremmo essere; indossiamo la maschera
che ci fa più comodo; per quanto possibile scegliamo il palcosceni-
co e la scena che maggiormente rispondono alle nostre esigenze; e,
se il tempo non lo possiamo stabilire noi perché è tutto l'arco della
nostra vita, possiamo però, entro certi limiti, decidere come rappre-
sentarci, in che modo 'farci presenti', quanto rimanere in un per-
sonaggio, quanto portare una certa maschera e quando cambiarla e,
soprattutto, perché e per chi 'recitare'.
Ciò che conta è avere coscienza che la nostra vita non riguarda
mai soltanto noi, non coinvolge mai soltanto noi, e che quindi, co-
me cantava Jannacci, non ci può mai essere un teatro da improvvi-
sare, un dramma da tentare; il teatro della vita non può essere affi-
dato soltanto all'istinto dell'egocentrismo o alla propria convenien-
za; e nemmeno può ridursi ad un copione da subire passivamente.

Ciò che contraddistingue il teatro, inteso come espressione arti-
stica, da altri avvenimenti che coinvolgono un pubblico, è il carat-
tere di 'compiutezza' dell'azione scenica.
È questa 'compiutezza', io credo, che nella nostra vita dovrem-
mo arrivare a vivere e a mostrare: una 'compiutezza' che però non
potrà mai essere assoluta, una 'compiutezza' paradossalmente
sempre imperfetta, perché alimentata dall'insaziabile anelito all'in-
finito che ci portiamo dentro.



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Penso alle quattro imponenti statue 'incompiute' di Michelange-
lo, 'Gli schiavi', il cui fascino è dovuto soprattutto alla loro sugge-
stiva e potente incompiutezza. Nel 'non-finito' di queste splendide
opere c'è un senso di tensione, di lotta fisica e interiore, una specie
di similitudine simbolica fra la figura che tenta di uscire dal marmo
e lo spirito che cerca di liberarsi dalla carne per incontrare Dio,
unica fonte di perfezione. Michelangelo era fermamente convinto
che lo scultore fosse uno strumento di Dio. Sgrezzando la materia
di queste immagini, egli voleva liberare la loro anima in tutta la sua
energia, e le lasciò incomplete per esprimere sia l'interiorità ineffa-
bile dell'uomo sia l'imperfezione dell'essere umano. L'incompiuta
Pietà Rondanini, ultima opera di Michelangelo, è il suo testamento
e la sua meditazione sulla morte e sulla salvezza dell'anima. Anche
in quest'opera egli rinuncia a rappresentare la perfezione del corpo
e la sua eroica bellezza, trasformando il Cristo morto nella personi-
ficazione della sofferenza.
Jannacci cantava anche che siamo tutti saltimbanchi, e mi sembra
proprio vero. Non dobbiamo però essere saltimbanchi per forza,
costretti a fare i salti mortali per sopravvivere; io credo che do-
vremmo essere saltimbanchi agili e addestrati, preparati ad affron-
tare gli imprevisti di ogni momento, affinché ogni attimo di questa
nostra esistenza scenica possa essere 'compiuto', cioè un anelito
all'infinito, senza vuoti: ogni attimo di vita infatti è un adesso in
cui dovrebbe realizzarsi la pienezza del nostro essere.
Dovremmo arrivare a mostrare che lo spazio esteriore con tutto
ciò che esso implica, cioè l'ambiente che probabilmente ci aveva
catturati, magari anche nostro malgrado, siamo riusciti ad introiet-
tarlo, ad elaborarlo e a renderlo 'nostro', ce ne siamo appropriati,
lo viviamo come realtà ormai 'nostra' perché lo abbiamo trasfor-
mato in uno spazio interiore 'nostro', non tollerato con difficoltà o
custodito timidamente come un segreto, ma apertamente e libera-
mente interpretato, rappresentato e condiviso con gli altri.
Credo che in ogni situazione della vita ciò che conta è la 'com-
piutezza dell'azione scenica' del nostro esistere, cioè la pienezza,
la correttezza, la serietà del nostro modo di mostrarci; l'integrità
della nostra vita, il nostro esserci, la nostra abilità di esserci e il


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come ci siamo, nei confronti di noi stessi e nelle relazioni con il
mondo.

Teatro è anche un 'dramma', cioè un'azione scenica in cui gli at-
tori interpretano personaggi e storie in ambienti diversi dai propri,
infatti il palcoscenico e il copione da recitare non rappresentano la
vita reale degli attori. È la stessa cosa che ci succede nella vita: la
storia che siamo chiamati ad interpretare difficilmente corrisponde
a quella che avremmo voluto o vorremmo; l'ambiente in cui ci tro-
viamo a vivere non sempre corrisponde ai nostri bisogni;
l'evolversi delle situazioni non sempre risponde alle nostre aspetta-
tive. Ma per quanto sentiamo ostile lo spazio esteriore, siamo 'co-
stretti' a vivere in una certa storia, a rimanere in un certo ambiente,
a subire certe situazioni. E questo può opprimerci.
Bernard Shaw affermava: 'Non c'è teatro senza conflitto'.
Non c'è teatro senza contrasti: il conflitto è l'ossatura del teatro,
è la trama della vita, perché siamo tutti diversi l'uno dall'altro, e
ogni relazione con gli altri, cioè con un 'pubblico' che guarda e
partecipa, comporta sempre e inevitabilmente dei contrasti.
Non c'è esistenza senza conflitti, con se stessi prima ancora che
con gli altri e con le situazioni in cui veniamo a trovarci.



L'ORIGINE DEL TEATRO


Ritengo importante presentare il teatro nelle sue forme che più
rappresentano il mio modo di concepirlo, perché è il mio modo di
concepire la vita. Mi interessa il teatro che esprime l'impegno di
far emergere il più possibile la realtà intima dell'uomo cercando di
conciliare sempre più la vita interiore con la vita esteriore e sociale,
con l'obiettivo difficilmente raggiungibile di unificarle entrambe in
una 'vita unica', non dissociata. Ho cercato di approfondire tutti
questi tentativi perché li sentivo importanti, in quanto diretti a libe-
rare l'anima delle persone, l'anima del teatro. Tutti però li ho per-


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cepiti incompleti, non soddisfacenti, perché in tutti mancava qual-
cosa. Tutti mi hanno profondamente affascinata, anche se tutti mi
lasciavano in cuore un senso vago di attesa, un'ansia indefinita di
un compimento che non arrivava mai.
Il teatro, e in particolare un certo genere di teatro, mi affascina
ancora; non può essere diversamente, perché credo che il teatro sia
la 'forma' della vita. Ora però ho compreso cos'è che mi manca
anche nelle forme teatrali che più corrispondono al mio sentire,
perché ora credo di aver compreso in che cosa consiste per me la
compiutezza dell'esistere.

L'origine del teatro è antica quanto l'uomo, perché risponde ad
aspirazioni esistenziali: fin dalla preistoria l'uomo ha avuto la ne-
cessità di esprimersi per affermare la propria identità; di mostrarsi
per mettersi in relazione con gli altri; di rendere concreta la sua re-
lazione con la divinità attraverso la rappresentazione del sacro
nell'arte, nei riti e nelle danze; di soddisfare il bisogno di creare,
definire e conservare i rapporti sociali attraverso la forma della
comunicazione, della festa e della finzione ludica.
Le pitture rupestri delle grotte preistoriche di circa quarantamila
anni fa, contemporanee nei vari continenti, dimostrano il bisogno
di comunicazione e di espressione dell'uomo antico attraverso le
rappresentazioni del mondo difficile in cui viveva.
Il ritrovamento di un papiro, nel 1928, da parte di Kurt Sethe, ha
dimostrato come, mille anni prima della nascita della tragedia gre-
ca, il teatro fosse praticato nell'antico Egitto sotto forma del culto
dei 'Misteri di Osiride'.
Dall'archeologia sappiamo che la civiltà minoica (Grecia, età del
bronzo, circa 3000 a.C.) conosceva l'uso di strumenti musicali qua-
li la cetra e il flauto, e come l'arte della danza fosse già praticata
come rappresentazione di azioni di caccia o di guerra.
Ancora oggi, nelle civiltà cosiddette primitive, la danza ha un va-
lore religioso: è un rito di propiziazione di tutto il clan prima della
partenza dei cacciatori o dei guerrieri per attirarsi il favore degli
dèi; è un rito delle donne per rendere presente la situazione e inter-
venire a distanza, con l'anima, e in tal modo partecipare all'azione


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dei loro uomini; infine è un rito sacro di ringraziamento e spesso
anche un rito funebre dopo il ritorno degli uomini.
La danza, strettamente collegata alla musica che ne suggerisce il
ritmo, è una dimensione innata dell'espressività umana, che coin-
volge tutto il corpo; è una forma istintiva del teatro, un atto religio-
so, perciò ha un carattere sacro: fa parte del rito, è preghiera, è co-
municazione di sé, è partecipazione al ritmo della natura e alla vita
del cielo, è un momento di aggregazione tra le persone.
Le popolazioni 'primitive', ancora oggi presenti nel nostro mon-
do, praticano riti sacri caratterizzati da vere e proprie azioni teatra-
li, particolarmente coinvolgenti ed espressive.
Il rapporto tra rito e teatro non è però esclusivo dei popoli cosid-
detti primitivi, ma ci riguarda tutti, perché ha un carattere religioso
e si sviluppa con l'evoluzione dell'uomo.
Del carattere sacro e religioso della danza e della musica ci dà
una conferma la Sacra Scrittura:
'Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davi-
de era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d'Israele
trasportavano l'arca del Signore con tripudi e a suon di tromba'
(2Sam 6,14-15).
E il Salmo 150:
Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza.
Lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza.
Lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra;
lodatelo con timpani e danze,
lodatelo sulle corde e sui flauti.
Lodatelo con cembali sonori,
lodatelo con cembali squillanti;
ogni vivente dia lode al Signore. Alleluia.
L'autonomia del teatro dal rito vero e proprio segue un processo
graduale: in origine, l'attore e il sacerdote si confondono, ma poi la
maschera sacra, che inizialmente rappresentava il dio, diventa lo
strumento di un gioco narrativo che si allontana dal senso origina-


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rio. Durante le rappresentazioni dionisiache in cui, per usare le pa-
role del filologo ungherese Károly Kerényi, 'gli uomini passano
dalla parte degli dèi', accanto alle forme rituali si sviluppano forme
teatrali che assumono il carattere nuovo di affermazione dell'identi-
tà di gruppo e di condivisione di valori comuni.
Una volta distinti, rito e teatro assumono compiti più specifici.
Il teatro conserva la sua anima religiosa, e comincia ad esplorare
la condizione umana diventando coscienza critica sulle condizioni
dell'uomo e del mondo, dando forma ai problemi, alle speranze e ai
progetti dell'individuo e alle tensioni della società.
In seguito, dove piano piano assume un profilo mondano e com-
merciale, il teatro perde le sue caratteristiche più vere e diventa so-
prattutto un fatto culturale. Questo però è un teatro 'diverso'.

Proprietà e forme del teatro
Ora mi soffermerò sulle forme teatrali che più corrispondono al
mio modo di intendere il teatro.
Farò riferimento alle espressioni teatrali particolarmente impe-
gnate a far emergere il più possibile la realtà interiore dell'uomo
per poi inserirla sempre più positivamente nella vita sociale, cer-
cando di ricucire il più possibile la dolorosa frattura fra anima e
corpo, e fra mondo intimo e mondo esterno: teatro inteso perciò
come ricerca e proposta di uno spazio di libertà da offrire alle ani-
me prigioniere del mondo, uno spazio dove le relazioni con gli altri
non siano più motivi di angoscia, ma occasioni di salvezza.

Si diceva che il teatro ha bisogno di tre dimensioni.
Prima di tutto ha bisogno di uno spazio.
Nel teatro il concetto di spazio ha almeno due significati: lo spa-
zio fisico, cioè il luogo della rappresentazione, e lo spazio
dell'immaginazione.
Lo spazio fisico è il luogo in cui si svolge la rappresentazione, o
il luogo mentale evocato dall'immaginazione dello spettatore e
dall'abilità dell'attore che ne crea i confini, con la libertà di variar-
ne continuamente gli orizzonti e la forma.



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Lo spazio dell'immaginazione è quello che il linguista russo Vla-
dimir Toporov (1928-2005) definisce come 'mitopoietica', cioè
rielaborazione creativa dei fatti e dei miti.
Il termine era stato sviluppato dallo scrittore britannico J. R. R.
Tolkien negli anni '30 del Novecento. Gli autori di questo genere,
seguendo l'esempio di Tolkien, integrano nelle proprie opere temi
mitologici tradizionali assieme ad archetipi (il termine deriva dal
greco arché, e significa immagine originale, modello, prototipo).
Queste nuove mitologie, invece di emergere dopo secoli di tradi-
zione orale come avviene nella realtà, sono create in un breve pe-
riodo di tempo da un singolo autore o da un piccolo gruppo di col-
laboratori (oltre a R. Tolkien, fra i maggiori autori mitopoietici ri-
cordiamo C.S. Lewis, George Mac Donald, Cesare Pavese).
Lo spazio teatrale è dunque molteplice e multiforme, e presenta
sfaccettature indefinite.
L'elemento temporale è ciò che più di ogni altra cosa determina
le caratteristiche della rappresentazione.
I tempi teatrali prendono il sopravvento sul tempo individuale,
coinvolgendo anche il pubblico, che tornerà al proprio tempo abi-
tuale al calare del sipario.
Lo studio del tempo è parte integrante e fondamentale dello stu-
dio dell'attore teatrale: la precisione del tempo e del ritmo nella pa-
rola e nell'azione determina la riuscita di una scena, e spesso
dell'intera rappresentazione. Questo è particolarmente determinan-
te in ogni azione che si svolge dal vivo, in cui il riscontro del pub-
blico è immediato: lo spettatore stesso concorre a stabilire il tempo
comune dell'evento teatrale, già di per sé irripetibile, anche durante
le repliche di uno stesso spettacolo. Si può quindi parlare di tempo
teatrale come di un'esperienza sempre nuova, sempre diversa,
sempre unica, determinata dall'originalità del tempo della rappre-
sentazione e da quello dell'accoglienza del pubblico.
Il tempo narrato sulla scena, necessariamente al presente anche
quando si riferisce ad eventi passati, è il frutto di una convenzione
che intuitivamente si stabilisce tra i due protagonisti dell'evento:
l'artista e lo spettatore. Entrambi, sospendendo le regole
dell'esistenza, si prestano ad una sorta di gioco, spendendo le pro-


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prie energie nel costruire il rapporto che si genera in un adesso che
sta oltre il tempo.
Dopo una rappresentazione particolarmente riuscita, attore e spet-
tatore escono dall'edificio teatrale con una diversa percezione. Per
molti attori questo si accompagna ad una sorta di 'felice spossatez-
za' fisica ed emotiva, determinata dall'atmosfera che aveva portato
l'attore e lo spettatore a raggiungere gradualmente, insieme, l'apice
dello spettacolo attraverso un sapiente aumento del ritmo
dell'azione.

L'anima del teatro è l'attore, la sua capacità di rappresentazione,
la sua abilità di uscire da se stesso per esprimere e comunicare il
personaggio che impersona. L'attrice statunitense Katie Holmes ha
detto: 'Il teatro è esaltante perché, a differenza del cinema, non ci
sono primi piani, quindi una persona deve saper comunicare con
ogni centimetro di se stessa'.
Se il fascino del cinema è in gran parte artefatto, cioè costruito
sulla ricerca di immagini da fissare e sull'abilità anche tecnica di
ottenere effetti particolari, e una volta concluso rimane bloccato in
quelle espressioni, perciò sempre uguale a se stesso, il teatro al
contrario rinasce ad ogni rappresentazione, in ogni momento della
rappresentazione, perché ogni volta e in ogni momento gli attori
comunicano i personaggi attraverso se stessi e soltanto con il pro-
prio corpo, per cui nessuna rappresentazione può mai essere uguale
alle altre, in quanto la persona dell'attore cambia interiormente di
continuo.
La vitalità propria del teatro sta in questa sua forza di comunica-
zione sempre nuova e sempre diversa, nel magnetismo che si crea
tra i corpi vivi e presenti degli attori (gesti, espressioni, linguaggi,
timbro della voce ecc.) e degli spettatori, nell'empatia che attrae o
nell'insofferenza che respinge, nelle reazioni profonde che anche
inconsapevolmente prendono vita e si influenzano a vicenda tra
palcoscenico e pubblico, determinando un'interazione tra perso-
naggi e persone, tra maschere e anime. Il teatro è vivo.

Accenno ora alle forme di teatro per me più significative.


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Il mimo (dal greco mimesis, imitazione) è una rappresentazione
di azioni, caratteri e personaggi che si esprime soltanto con la ge-
stualità: è il linguaggio silenzioso del corpo.
Nessuno è troppo giovane o troppo vecchio, troppo grasso o
troppo magro, troppo basso o troppo alto per realizzare questa for-
ma di teatro viva ed efficace. E non sono necessari né una compa-
gnia teatrale e nemmeno un edificio teatrale: basta lasciar parlare il
proprio corpo, magari insegnandogli a comunicare.
Il mimo non è prerogativa di un 'attore': fa parte della vita
dell'uomo. L'imitazione è una forma istintiva di espressione, un
mezzo di adattamento alla realtà e un prezioso fattore di crescita.
Tutti comunichiamo con il corpo, anche se inconsapevolmente.
Il corpo è il primo canale di comunicazione tra il bambino e il
mondo esterno. Il corpo continuerà a essere l'intermediario privile-
giato nelle nostre relazioni con gli altri. Il linguaggio del corpo ci
fa entrare in comunicazione diretta con l'altro in modo molto più
efficace delle parole. L'espressione del volto è la forma di comuni-
cazione più coinvolgente, in una continua trasformazione che
esprime pensieri, sentimenti, emozioni, sensazioni, reazioni che
'passano' all'altro senza filtri, senza mediazioni.
Il mimo è anche la rappresentazione della quotidianità nelle sue
manifestazioni spontanee, o del fantastico immaginato e raffigurato
come atteggiamento, movimento, gesto.
Una movenza, un comportamento, una 'mimica' possono essere
una poesia che non si può esprimere in altri modi.
Se realizzato come una danza al ritmo della musica, il mimo si
trasforma in un linguaggio particolarmente significativo, intenso e
suggestivo.

Dallo studio del mimo è nato il 'Teatro Fisico', che integra di-
versi generi teatrali basati sul linguaggio del corpo e sul significato
del movimento nello spazio. Attraverso l'osservazione e l'analisi
dei movimenti, insegna la trasposizione fisica e, attraverso
l'improvvisazione, la sua traduzione in un atto teatrale.
Fondamentalmente, si parla attraverso i gesti delle mani e con il
linguaggio del corpo, seguendo un proprio discorso interiore.


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Si stabilisce così un rapporto stretto tra il movimento, il gesto, la
parola e i processi psicologici.
Inoltre, il 'Teatro Fisico' incrocia la teatralità con la musica, la
danza, e ogni arte visiva. Esso sfida il palcoscenico tradizionale e
la relazione tradizionale attore-spettatore, cioè 'rompe la quarta pa-
rete', incoraggiando la partecipazione del pubblico.
L'attore diventa 'creatore', in quanto si mette in scena, fa regia e
si adatta a vari stili teatrali.
Con il famoso maestro francese Étienne Decroux (1898-1991),
considerato il padre del mimo moderno, iniziò la nuova tradizione
del 'mimo corporale', ora insegnato in molte scuole teatrali.
L'obiettivo di Decroux era di creare un teatro basato sulla fisicità
dell'attore, realizzando così un teatro più metaforico.
Daniel Stein, un insegnante della scuola di Decroux, dice sul
Teatro Fisico: 'La fondazione di un teatro è un'esperienza viva,
umana, diversa da qualunque altra forma d'arte che io conosca. Il
teatro vivo, dove esseri umani reali sono in piedi di fronte ad esseri
umani reali, riguarda il fatto che tutti abbiamo messo quest'ora da
parte; la condivisione va in entrambe le direzioni. Il fatto che que-
sta particolare forma di teatro sia molto fisica, viscerale, lo rende
un'esperienza molto diversa da quasi qualunque altra cosa a cui
partecipiamo nelle nostre vite. Non so se potremmo farlo nello
stesso modo se stessimo facendo teatro di stampo letterario'.
Probabilmente, il punto in cui il Teatro Fisico si distinse dal puro
mimo è quando Jean-Louis Barrault (uno studente di Decroux) ri-
fiutò il concetto del suo insegnante che il mimo dovrebbe essere si-
lenzioso: se un mimo usa la sua voce gli si apre un'immensa gam-
ma di possibilità. Questa idea divenne nota come 'Teatro Totale':
Barrault sosteneva che nessun elemento teatrale dovrebbe assumere
una priorità su un altro: movimento, musica, immagine visiva, te-
sto, ecc. Ogni elemento è ugualmente importante, e ognuno deve
essere esplorato per tutte le sue possibilità.
Anche Antonin Artaud ha avuto notevole influenza nel plasmare
il Teatro Fisico. Egli rifiuta la supremazia del testo e suggerisce un
teatro in cui il proscenio è eliminato per offrire una relazione più
diretta con il pubblico.


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Notevole influenza nel Teatro Fisico hanno avuto anche le tradi-
zioni del teatro orientale, in quanto molte di esse presentano un alto
livello di addestramento fisico e sono capolavori visivi.

Il 'Teatro-danza' è una forma di danza allegorica, spesso simbo-
lista, fortemente animata dalla fusione tra teatro e arti figurative,
dove l'elemento narrativo è espresso in modo astratto e antinatura-
listico. Anche in questo caso non ci sono attori in scena, ma danza-
tori, oppure attori poliedrici in grado di eseguire complesse coreo-
grafie. Ciò conferma ancora una volta il grande valore della danza
nella vita dell'uomo: non è soltanto l'arte del corpo in movimento
secondo ritmi anche improvvisati o anche solo interiori, ma contie-
ne un profondo significato simbolico, religioso, ed è un patrimonio
di tutte le culture.

Il 'Teatro dell'Oppresso'
Particolarmente interessante è per me il Teatro dell'Oppresso,
che prendo in considerazione in modo un po' più

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