Vegliate con me

La figura di Cicely Saunders rappresenta, nello scenario delle cure palliative antiche e moderne, una montagna alta che compare già in lontananza a chi vi si avvicini: come tutte le montagne degne di questo nome ha più versanti e, secondo il punto di avvicinamento, cambia di aspetto e di difficoltà nell’ascesa. L’itinerario più semplice e diretto riguarda probabilmente il suo percorso professionale da infermiera a medico, perseguendo l’obiettivo di prendersi cura delle persone prossime alla morte convincendo il mondo scientifico dell’efficacia della morfina per via orale. Analogamente semplice (e affascinante) è la strada con cui ha saputo affermare nella società inglese e in seguito nel mondo la proponibilità dell’hospice come struttura specifica per i malati terminali, con tutte le caratteristiche che conosciamo in termini di multiprofessionalità e umanizzazione. Comincia invece a diventare ardua la strada che passa attraverso la sua vicenda personale, attraverso le scelte esistenziali che direttamente o indirettamente l’hanno condotta alla creazione del primo hospice moderno e, di fatto, a quella delle cure palliative, soprattutto se la leghiamo, come è indiscutibile, alla sua fede e alle sue scelte religiose. Riscoprire le origini cristiane delle moderne cure palliative ha un valore storico e pratico al tempo stesso. Non può essere un limite per chi non vive un’esperienza religiosa, ma per quelli che condividono questa ispirazione deve essere uno stimolo forte alla testimonianza, un contributo alla discussione come per tutti coloro che sono solo genericamente interessati al tema: si tratta di offrire un terreno di confronto per tutti gli operatori di ogni fede e convinzione, e per i malati e le famiglie che affrontano questa difficile fase della vita. La realtà storica è anche una fonte originale di interpretazione del bisogno di assistenza spirituale che Cicely Saunders mise a confronto con tutti coloro che ne danno interpretazioni diverse. Tale realtà è assai evidente nei testi che proponiamo, amplificata da una personale propensione all’apertura verso gli altri, la stessa che ritroviamo nella metafora della finestra di David aperta sul mondo intero, che ci invita a non porre limiti alla nostra vitalità, alla nostra fantasia e, per chi può, alla nostra fede, per dare a tutti coloro che giungono alla fine della vita la possibilità più grande: quella di continuare a essere se stessi fino all’ultimo.

Tratto dalla Rivista Il Regno 2008 n. 8
(http://www.ilregno.it)