Citazione spirituale

La vita monastica in Sant'Agostino. Commento al Salmo 132

di

Pagano Giuseppe


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EAN 9788831134606

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Tipo Libro Titolo La vita monastica in Sant'Agostino. Commento al Salmo 132 Autore Editore Città Nuova EAN 9788831134606 Pagine 128 Data gennaio 2008 Peso 180 grammi Dimensioni 13 x 20 cm Collana Studi agostiniani

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, ritamell@alice.it il 9 settembre 2008 alle 20:08 ha scritto:

La comunità monastica in Sant’Agostino

Certamente, il monachesimo non nasce con Agostino, tant’è che nel secondo soggiorno romano egli si ferma per diversi mesi nella capitale per visitare - come ha fatto anche a Milano - i numerosi monasteri che vi prosperano, per studiarli, per sperimentarne la vita comunitaria, per studiare le norme che ne regolano la vita interna: l’intento è di raccogliere quanti più dettagli possibili per poi servirsene nel momento in cui sarà pronto a costituire il suo primo monastero una volta di ritorno in Africa. Di essi, con ammirazione, così scrive: «Ho visto io stesso un cenacolo di santi, e nemmeno pochi, a Milano, di cui era superiore un sacerdote, persona ottima e dottissima. Pure a Roma ne ho visti parecchi, in ciascuno dei quali è preposto, a quelli che vi abitano in cristiana carità, santità e libertà, uno che spicca su tutti per gravità, prudenza e scienza divina» .
Agostino cura personalmente la formazione culturale e spirituale dei suoi monaci. A riprova di ciò abbiamo l’opera Le Ottantatre diverse questioni, che contiene le domande dei monaci e le risposte di Agostino. Egli non è uno studioso da tavolino dell’ideale della vita religiosa, ma un uomo che la vita monastica la vive in prima persona e proprio per tale motivo è in grado di scriverne l’esperienza. Ciò spiega anche la modernità dell’ideale monastico di Agostino, che, con grande equilibrio e realismo, sa tenere in piedi l’austerità e la moderazione: «Moderazione e austerità, interiorità e ricerca del bene comune, amicizia schietta e ascesa costante verso Dio, autorità umile ed efficiente e fraternità sincera si fondono in essa per creare un equilibrio mirabile, quell’equilibrio sapienziale che è proprio, per dono di natura e di grazia, del Vescovo d’Ippona» .
Oltre all’esperienza personale, un’altra fonte d’ispirazione è sicuramente la Sacra Scrittura con il vivo esempio della prima comunità apostolica di Gerusalemme . Nella concezione di Agostino, infatti, ogni persona che decide di entrare in convento deve assolutamente cambiare la sua identità per assumerne un’altra: quella di Cristo che è venuto per servire e, dunque, deve essere una persona nuova, che è lì per dare e non per prendere. Non è più un singolo, ma è uno insieme con gli altri: un’anima sola ed un cuore solo in Dio. «Et erat illis, anima una et cor unum in Deum» . Agostino aggiunge che è bello e dolce vivere insieme mettendo tutto ciò che si possiede a disposizione di tutti gli altri: «Et ipsi primi habitaverunt in unum, qui omnia quae habebant vendiderunt, rerumque suarum pretia ad pedes Apostolorum posuerunt» . Il monaco non può possedere nulla di suo, ma tutto deve essere dato ad ognuno secondo le sue necessità: «Et distribuebatur unicuique sicut cuique opur erat; et nemo dicebat aliquid proprium, sed erant illis omnia communia» . Nella vita di comunità, dunque, tutto è comune: il singolo, del resto, gioisce o soffre per le gioie o per le sofferenze dei suoi fratelli. Questo significa avere un’anima sola e un cuore unico!
Agostino tiene molto a sottolineare che bisogna porre l’unità a fondamento della vita del monaco e del monastero: l’unità deve essere espressione della moltitudine; l’unità di intenti deve essere espressione della molteplicità delle volontà; il desiderio unico di amare Dio deve essere espressione dei diversi desideri di entrare in dialogo con Lui, di “indiarsi”. Tutti i monasteri, che Agostino fonda, hanno come modello e punto di riferimento indiscusso la prima comunità religiosa di Gerusalemme. La Regola stessa prende le mosse da quelle parole: «Vivevano in un sol cuore e in una sola anima», con l’aggiunta tutta agostiniana: “protesi verso Dio”.
Questa volontà unica nasce sulla base della carità, cioè dell’amore di Dio, che ci viene donato dallo Spirito Santo: per quante, infatti, possano essere le nostre opere buone, la carità è sempre un dono. Tale dono ci viene conquistato da Cristo, che è l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, perché Egli è figlio di Dio, ma è anche figlio della Vergine: incarnandosi assume il peso del corpo umano (tranne il peccato), ma conserva anche la Sua divinità, in quanto figlio di Dio. Cristo, infatti, ribadisce più volte che è venuto per servire e non per essere servito, ciò significa che chi intende vivere in comunità deve innanzitutto tenere in mente tali parole, oltre a non dimenticare mai che ci è stato detto di amare Dio ed il prossimo. Ciò significa che dovremmo mettere in secondo piano il nostro io, o, per meglio dire, dovremmo essere capaci di trasformare l’io in un noi. «Il motivo essenziale per cui vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e abbiate unità di mente e di cuore protesi verso Dio» . Luc Verheijen, che ha dedicato una ricerca scrupolosa alla Regola (pubblicata in due volumi), afferma: «È questo una vetta, certamente, ma solamente la vetta della prima parte, precettiva. Invece, la chiave di volta della regola si trova in realtà nella preghiera finale. Se l’anima una e il cor unum sono orientati in deum, questo significa che sono protesi in spiritalem pulchritudinem, verso la Bellezza divina che si rispecchia nella bellezza dell’anima e del cor pacificati ad intra e ad extra. In altri termini, la Regola di S. Agostino ha una portata contemplativa molto più accentuata di quanto si possa credere se si dà troppa importanza alla sua prima riga precettiva. Sottolineiamo tuttavia che questo non toglie nulla al carattere comunitario (infine ecclesiale) della concezione monastica di S. Agostino. […]. Quel carattere comunitario viene così collocato al giusto livello. Lo spirito comunitario deve superare un livello troppo utilitario o addirittura banale, al fine di giungere a quella profondità dove diventa possibile l’incontro con la Bellezza spirituale. Ma d’altra parte, la Bellezza divina non potrebbe rispecchiarsi in un’anima e in un cuore che non fossero in armonia con le altre anime e gli altri cuori, costituendo, con gli altri, “un’anima sola ed un solo cuore protesi verso Dio”. Insomma, per interpretare bene la Regola di S. Agostino, occorre rendersi conto che questo testo si compone di due parti, che l’apogeo della prima parte, precettiva, si trova immediatamente all’inizio (anima una et cor unum in deum), ma la chiave di volta della Regola nel suo insieme si trova all’inizio della seconda parte (tamquam spiritalis pulchritudinis amatores)» .
L’unità primeggia su tutto e Agostino, oltre che agli Atti degli Apostoli, si rifà anche al Salmo 132, nel quale l’unità è espressa con una simbologia particolare, che è contenuta nel racconto della consacrazione del sommo sacerdote Aronne. Un’esposizione chiara e completa - l’Autore, infatti, non trascura alcun aspetto, bensì li analizza tutti, da quello esegetico e teologico a quello ecclesiologico e pneumatologico - del commento al Salmo 132 la possiamo trovare in Giuseppe Pagano, La vita monastica in sant’Agostino: commento al Salmo 132, Città Nuova, Roma 2008, pp. 122; il volume è inserito nella collana di spiritualità agostiniana In pluribus unitas, diretta da padre Remo Piccolomini.
Per la cerimonia si usa un unguento speciale che viene sparso sul capo e dal capo scende giù sulla barba. La barba non è un ornamento accessoriale, bensì elemento necessario, perché è segno di forza, di maturità, di coraggio. L’olio scende, poi, anche sull’orlo del vestito di Aronne, ma bisogna chiarire a quale orlo ci si riferisce, in quanto abbiamo l’orlo che è in fondo al vestito e l’orlo che è intorno al collo, dove entra la testa: l’orlo del fondo sarebbe la perfezione cui la Chiesa deve mirare sempre, mentre la testa di Cristo (Aronne) passa attraverso l’orlo del collo. «Aronne è sacerdote perché è l’unico che penetrò nel Santo dei Santi, è stato vittima e sacerdote, ha offerto se stesso. Sulla sua testa allora c’è l’unguento e questo unguento fluisce solo sulla testa, anche se il Cristo totale comprende anche la Chiesa. La nostra testa è il Cristo, il quale, crocifisso, sepolto e risuscitato, salì al cielo. Da questo Capo è venuto lo Spirito Santo, e attraverso questo i discepoli cominciarono a vivere nell’unità e da lui ricevettero la forza per superare le persecuzioni, perché li aveva preceduti in questo la testa da cui scendeva quell’unguento. Gli apostoli di Gesù sono simboleggiati dalla barba, infatti, dove scendeva l’unguento» L’allegoria, dunque, vuole significare che la barba è la Chiesa degli Apostoli e dei martiri, sui quali per prima cola l’unguento della testa (Cristo), ma la barba poggia sull’orlo del collo che rappresenta la nostra Chiesa di oggi; i monasteri, che sono fioriti in seguito, rappresentano l’orlo che rifinisce il vestito di Aronne in fondo, perché essi dovrebbero rappresentare la perfezione, che è realizzata da una vita condotta nell’unità di anima e di cuore in Deum. Una vita condotta nell’unità dei cuori e delle volontà significa essere diventati tutti ed ognuno un tempio di Dio: «Perché l’unguento potesse discendere sull’orlo, non doveva trattarsi dell’orlo laterale, bensì di quello dalla parte della testa, dove si apre il cappuccio. In effetti tali sono i fratelli che vivono nell’unità. Come dentro all’orlo del cappuccio passa la testa dell’uomo che indossa il vestito, così il nostro capo Cristo passa attraverso la concordia fraterna, per rivestirsi, cioè affinché la Chiesa possa aderire a lui» .
Ma diventare un tempio di Dio non è merito nostro bensì, come Agostino dice procedendo nel Commento al Salmo 132, «È per grazia di Dio che i fratelli vivono nell’unità. Non è per le loro forze né per i loro meriti, ma per il dono di Dio, per la sua grazia che come rugiada scende dal cielo». C’è qui l’allegoria della rugiada dell’Hermon che cade sui monti di Sion, ma non è facile trovare una collocazione al monte Hermon e sembra che voglia soltanto significare la parte più alta dei monti Sion. «Il monte Hermon è stato situato in Siria, ed è difficile parlare della rugiada dell’Hermon che cade sulle montagne di Sion. In questo caso si deve pensare ad un’espressione proverbiale per indicare “abbondanza di rugiada”. […]. La rugiada, a testimonianza degli antichi e dei viaggiatori moderni, cade sul monte Hermon (cfr. Sal 68, 16) in grande quantità; essa rendeva le sue contrade fertili oltremodo […]. La rugiada di Sion è il “favore” di JHWH sul suo popolo che risorge a vita nuova»
Ma per Agostino ed i suoi fratres il più alto non è il monte Hermon bensì è Cristo, che è stato in alto sulla croce prima ed in cielo poi, quindi è solo Lui che può darci l’unità e la carità: «Non potranno abitare uniti se non coloro nei quali c’è la perfetta carità di Cristo. Quelli, infatti, che non hanno la perfetta carità di Cristo, anche quando vivono insieme, non mancheranno di odiarsi e di molestarsi a vicenda, di essere turbolenti e di trasmettere agli altri la propria irrequietezza, preoccupati di sapere quello che gli altri dicono di loro. […]. Se invece un fratello possiede la rugiada dell’Hermon, quella che scende sopra i monti di Sion, sarà una persona pacifica, capace di tollerare (il male) e alla mormorazione risponderà con la preghiera» . La vita dei frati è gioiosa, proprio perché si fonda sulla carità, cioè sull’amore per il fratello, che è un dono dello Spirito Santo. Per Agostino il fatto che l’amore sia un dono non ci esime dal ricercarlo ed accoglierlo nel nostro animo: dobbiamo darci da fare, infatti, per desiderare che tale dono ci venga fatto per far sì che da una moltitudine di persone, con l’aiuto della fede, si dia vita ad un’anima sola e ad un cuore solo protesi verso Dio, come successe già al tempo degli Apostoli, quando la fede spinse tanti a vendere i loro beni e mettere il ricavato a vantaggio della comunità. Essi avevano già capito che la nostra permanenza su questa terra è solo un pellegrinaggio verso la città celeste, dove raggiungeremo la perfezione dell’unità, cioè una sola città di uomini che hanno un’anima sola e un cuore solo in Dio. Oltre che nel Commento al Salmo 132, Agostino insiste molto sull’unità anche in diversi libri de La Città di Dio e nel De Trinitate. Egli sente fortemente di doverlo fare per contrastare tutti coloro i quali esprimono la volontà di separarsi dalla Chiesa, come i Donatisti ad esempio, ma gli eretici sono tanti e Agostino scrive numerosi trattati per combattere anche Manichei, Pelagiani, ed altri.
Già a partire dalle sue Confessioni Agostino pone l’accento su ciò che secondo lui è fondamentale per la sua vita: la ricerca della verità e la pratica dell’amicizia. Egli ama la solitudine, lo studio, la ricerca, il silenzio, ma non sa vivere senza amici. Ha una profonda apertura verso l’altro, che lo porta ad instaurare facilmente dei rapporti niente affatto momentanei, perché quasi tutti durano per la vita. Un brano delle Confessioni è quanto mai significativo: «Massimo ristoro e sollievo mi veniva dai conforti degli altri amici, con i quali avevo in comune l’amore di ciò che amavo [...]: avvincevano ulteriormente il mio animo i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le letture comuni di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore [...] e i più frequenti consensi [...]; l’essere ognuno dell’altro, ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze di chi ritorna [...]» . L’amicizia, quale espressione del totale servizio a Gesù Cristo, quindi, non solo non viene meno, ma si irrobustisce e si perfeziona col tempo, diventando la base della vita monastica.
Quando Agostino, negli ultimi mesi del 388, lascia Roma e ritorna a Tagaste, con la piccola comitiva di amici alla quale si aggiunge Evodio, mette in atto il suo proposito di vita comune. Vende quei pochi beni che ha, ne distribuisce il ricavato ai poveri «E questo è interessante perché richiama in modo parallelo anche l’insegnamento della Regola, e cioè che la vita dell’unità e della comunione è segnata dalla comunione dei beni e ci terrei a sottolineare, non tanto per la rinuncia in sé, ma per mettere in comune e ancora di più per un’apertura e una comunione con i poveri, con coloro che sono nel bisogno. Volendo, quindi, si potrebbe fare anche una lettura sociale di questi testi e dire che come per Agostino dal punto di vista spirituale è forte l’esperienza del monastero non chiuso in se stesso, ma aperto alla dimensione ecclesiale, così la stessa cosa dal punto di vista materiale: una comunione di beni non tanto per la ricchezza della comunità, ma per la condivisione con tutti» . Quindi, si dedica insieme con i suoi amici ad una vita di penitenza, di preghiera e di studio: egli vuole «deificasi [...] nella tranquillità» .
Essere intento alla parola di Cristo è per lui l’attività per eccellenza, in quanto vuol dire contemplare la Sua bellezza: questa è l’attività scelta da Maria, sorella di Marta, la quale si siede ai piedi del Maestro intenta alla riflessione sulla Sua parola ed alla contemplazione della Sua bellezza: Maria «sedeva ai piedi di Gesù intenta alla sua parola, cioè libera da ogni attività e tutta intenta alla verità secondo quel modo, di cui è capace questa vita, ma tale da prefigurare quello che si farà in futuro per l’eternità» .
Agostino cura personalmente la formazione di questa comunità con l’esempio di vita, di preghiera e di studio: a lui si deve il rifiorire in tutta l’Africa della vita cristiana e del monachesimo. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che egli fonda anche monasteri femminili, sull’esempio di quelli visitati a Milano ed a Roma. Famoso è quello di Ippona, retto fino alla morte dalla sorella. Alle suore di tale monastero indirizza due famose lettere, a causa dei disordini che nascono dopo la morte della superiora . Dice loro: «Mettete maggiore impegno nell’andare d’accordo che nel rimproverarvi, poiché allo stesso modo che l’aceto guasta il recipiente in cui è lasciato a lungo, così l’ira guasta il cuore se vi dura fino al giorno seguente»
Mentre è in cerca di un posto tranquillo dove fondare un monastero (a Tagaste i suoi compaesani - data la sua fama - non gli danno tregua assillandolo con i loro problemi), si trova suo malgrado ad essere sacerdote, ma una volta consacrato se ne assume la responsabilità e vive la sua carica con grande impegno come servizio totale a Cristo, presente in tutta la Chiesa. Tuttavia, nemmeno da vescovo rinunzia alla vita in comune. Infatti, è il primo a introdurre il sacerdozio nei monasteri unendo l’ideale monastico e quello sacerdotale, l’amore della verità (amor veritatis), cioè la preghiera di contemplazione e la necessità della carità (necessitas caritatis), cioè l’attività apostolica. Tra i tanti testi riporto solo quello della Lettera 48 indirizzata all’abate Eudossio, che suona così: «Se la Chiesa desiderasse l’opera vostra, non l’accettate per superbia, né respingetela per pigrizia, ma ubbidite con umile cuore a Dio [...]. E non anteponete la vostra vita di contemplazione (otium vestrum) ai bisogni della Chiesa; se nessuno tra i buoni volesse prestarle l’opera nel generare nuovi figli, nemmeno voi avreste trovato il modo di nascere alla vita spirituale» .
Proprio prima di lasciare i suoi fratelli per trasferirsi nell’episcopio Agostino, per loro guida, scrive La Regola, che però non è il primo scritto teso ad ordinare la vita all’interno dei monasteri. Dopo le prime esperienze di vita solitaria nel deserto, come quella dell’egiziano Antonio - ad un certo punto, però comincia ad avere proseliti, tra cui Atanasio, il futuro vescovo di Alessandria, che ne scrive la Vita -, per evitare i pericoli di un’eccessiva libertà individuale che poteva portare ad esagerazioni nella mortificazione del corpo, Pacomio, anch’egli egiziano, comincia a vivere in comunità con altri monaci e sente l’esigenza di scrivere delle norme, che ne ordinino la vita. Tuttavia, la sua precedente esperienza di vita militare lo porta ad essere molto severo e ad esempio dà molta importanza al superiore, che deve guidare la vita spirituale: egli dà al superiore l’esclusiva decisione di spostare i monaci in altro luogo, tiene tutto sotto controllo diretto, visita spesso i monasteri, insomma fa sentire la sua autorità, alla quale i monaci possono solo obbedire: la regola fondamentale è, infatti, l’obbedienza. Pacomio lascia una certa libertà ai monaci, ma è la libertà della penitenza, che comunque deve avvenire sotto la direzione del superiore. Egli quasi controlla la coscienza dei suoi monaci con conferenze per educarli e con la lettura della Sacra Scrittura, che è un’altra regola fondamentale.
Ma non è affatto sicuro che quella che va sotto il nome di Regola di Pacomio sia davvero scritta da lui, anzi è quasi certo che sia frutto dell’opera di San Girolamo, che traduce dal copto in latino i precetti di vari asceti egiziani dando ad essi il titolo di Regola di Pacomio. La figura più rilevante, però, del monachesimo orientale è sicuramente San Basilio, il quale con la sua Regola riforma i monasteri fondati da Pacomio (che sono ormai diventati tanti) rendendoli più vivibili. Il superiore, infatti, non ha più una libertà illimitata sulle coscienze dei suoi cenobiti, ma questi hanno la possibilità di ribellarsi ai suoi ordini se li trovano incongruenti e la comunità non religiosa deve essere ascoltata sull’ammissione dei postulanti.
Caratteristica comune a tutti i monasteri dell’oriente è che essi non si preoccupano minimamente di fornire nuovi preti alle varie chiese (Pacomio e Basilio, infatti, non ammettono che pochissimi monaci al servizio liturgico), come succede invece per il monachesimo occidentale, per il quale i monasteri si possono quasi considerare dei vivai di futuri preti. Agostino per primo riesce a collegare la vita ascetica con l’apostolato, come ho detto più sopra. Un altro ed alto esempio di ciò è anche il monastero di San Paolino di Nola, il quale intrattiene un rapporto epistolare di venticinque anni circa con Agostino e con alcuni suoi carissimi amici, tra cui Alipio e Licenzio, ma conosce anche Romaniano, che spesso è proprio colui che gli porta le lettere di Agostino.
Tra gli scritti di Paolino di Nola troviamo la lettera XXX ad Agostino, che è di particolare interesse nel discorso che sto facendo. «In quel momento egli [Paolino] era ancora sacerdote. Verso la fine della Lettera scrive: Tu sai quanto siano alti i premi che l’Altissimo promette al fratello che aiuta il proprio fratello. Se vorrai ricambiarmi con qualche dono della grazia che ti è stata elargita, potrai farlo tranquillamente tramite Romano ed Agile, che vengono da parte nostra (cioè di Paolino e di sua moglie Terasia). Essi sono insieme con noi, vorrei che mi credessi, un cuore solo ed un’anima sola nel Signore […]» . Per Luc Verheijen la lettera XXX è del 391, ciò significa che l’idea dell’unità intesa come comunità Agostino la prende da Paolino, visto che la data più probabile della stesura della Regola è il 397, quando Agostino viene consacrato vescovo e deve abbandonare il monastero d’Ippona, così lascia ai suoi confratelli almeno delle regole scritte per poterli guidare in sua assenza; ma inizialmente Agostino concepisce l’unità quale unità individuale. Nella sua Lettera XXXI, in risposta a quella di Paolino, Agostino gli fa sapere che è stato appena consacrato vescovo e dice: «Romano e Agile sono stati per noi come una seconda vostra lettera, ma una lettera che ascoltava e parlava […]. Una lettera scritta non può fare quanto essi hanno fatto. C’era in quello che dicevano di voi tanta gioia che con inesprimibile gaudio potevamo leggervi, scritti nel loro cuore. […].
Questa tenace insistenza di Agostino sull’armonia dei cuori e delle anime tra Paolino, Terasia e lui stesso con la sua comunità, e ciò tramite Romano e Agile, mostra fino a che punto Agostino fosse rimasto colpito dalla dimensione fraterna data da Paolino ad Atti, 4,32a » .
Tuttavia, altri sostengono che non è affatto facile datare le opere e le lettere di Paolino di Nola, in quanto contengono pochi riferimenti storici precisi, o sono avvenimenti essi stessi poco noti e di conseguenza non databili con certezza assoluta . L’unica certezza che abbiamo è che Agostino e Paolino sono stretti da un forte vincolo di amicizia fraterna e pur non essendosi mai incontrati fisicamente vi sono reciproche influenze nel concepire e nel guidare la vita di comunità. Ad ogni modo Agostino ha grande stima in Paolino tanto che tra i due nasce e si consolida col tempo un rapporto che per Paolino è di riverenza, come del discepolo verso il maestro, ma che per Agostino è di discussione amichevole su vari problemi teologici. Nasce in Agostino un gran rispetto ed una profonda fiducia in Paolino, tanto che invia da lui un prete e un laico che reciprocamente si accusano, perché condotti davanti all’altare della verità avrebbero confessato: «Una credenza popolare, convalidata da fatti prodigiosi successi dinanzi a tale altare, faceva ritenere che qualsiasi persona avesse asserito il falso, condotta dinanzi a quell’altare, era costretta a dire la verità. Molti colpevoli, infatti, ivi condotti, avevano confessato la loro colpa. Ecco perché era chiamato l’Altare della verità» . Agostino è convinto che Paolino, illuminato dal Signore, saprà guidare i due sulla giusta strada. In effetti, arrivano monaci da tutte le parti per trovare la vocazione e con il movimento che Paolino costruisce di pellegrini, che ogni anno vengono per rendere omaggio a San Felice (santo patrono), Nola diventa un crocevia di spiritualità .
Ogni volta Paolino compone un carme per la ricorrenza della festa di San Felice e nel carme XXVII scrive «Nel cinquantesimo giorno dopo la solennità pasquale ricorre la celebrazione dello Spirito Santo, mandato una volta dall’alto del cielo divino in tante lingue di fuoco. Lo stesso unico Dio corse per bocche diverse e fece risuonare su un unico labbro le lingue di tutti i popoli. Concesse a tutti di pronunziare accenti mai uditi, riconoscendo ciascuno la propria stirpe nelle parole di uno straniero senza pensare di avere sul labbro il linguaggio di popoli diversi. Lo stesso barbaro ripeteva parole note ad uomini a lui sconosciuti e ai suoi parole straniere. In tutti l’unico Spirito lodava in linguaggi diversi l’unico Dio. Così il suonatore di cetra col tocco di un unico plettro fa vibrare corde diverse o il flautista, soffiando con le labbra in più canne congiunte, emette un sol motivo dalla bocca […]. In tal modo Dio, unico modulatore ed arbitro dell’armonia universale, che egli crea nel moto dei corpi, artefice della natura e dell’ordine cosmico, causa e fine di ogni opera, creatore e conservatore di tutte le cose buone, rimanendo identico in sé, mediante il mutuo amore, col quale il Padre regna nel Verbo e il Figlio nel Padre, senza del quale nulla fu fatto, per il quale l’universo creato rimane nello stesso essere, tutto rinnova sotto l’impulso del Verbo. Questo, innalzato sulla croce rosseggiante del suo sangue prezioso, con rapido volo, circondato da una nube, si innalzò al cielo al di sopra dei Cherubini e si assise alla destra del Padre e di lì sparse sui suoi il dono dello Spirito Santo che procede dal Figlio e dal Padre. Lo Spirito, egli stesso Dio che viene da Dio, benché sia presente dovunque, tuttavia visibilmente sotto l’aspetto del fuoco, discese là dove si raccoglieva concorde l’assemblea dei giovani Apostoli» .
La forma è sicuramente diversa da quella di Agostino, ma il contenuto del carme è analogo al commento agli Atti degli Apostoli: infatti, anche per Paolino il modello cui richiamarsi per la sua comunità di Nola è quello della Chiesa delle origini.
«Anche nella nostra Enarratio, al par. 2, Agostino collega subito l’esperienza della Pentecoste, anche se non parla espressamente del dono delle lingue, con l’esperienza dell’unità, quell’esperienza che porterà tutti a vendere i propri averi ponendone il prezzo del ricavato ai piedi degli apostoli (cfr. At 4, 34-35). Lo schema del santo sembra essere sempre il medesimo: si parte dall’esperienza del Cristo morto, risorto e asceso al cielo, invio dello Spirito Santo promesso, nascita della Chiesa, partendo sempre da una esperienza di unità, nel senso che sono le opere ad esprimere e rendere forza a questa unità. In questo caso ultimo che abbiamo visto e che diventa l’espressione più concreta dell’esperienza monastica, è la comunione dei beni. Il vescovo di Ippona ha una riflessione interessante per quanto riguarda sempre la relazione tra Spirito Santo, unità e Chiesa. Egli afferma: “Riceviamo dunque anche noi lo Spirito Santo, se amiamo la Chiesa, se siamo compaginati dalla carità, se ci meritiamo il nome di cattolici e di fedeli. Siamo convinti, o fratelli, che uno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa di Cristo” (In Io.ev.tr. 32,8). È necessario, allora, tenere presente questo permanere dell’unità e della carità ecclesiali che ci fanno vedere che in Agostino pneumatologia ed ecclesiologia sono strettamente vincolate l’una all’altra» .
Quando nel 395 viene consacrato vescovo, Agostino si ritira nell’episcopio, ma - non potendo e non volendo rinunciare alla vita in comune - vi fonda un monastero di chierici , di cui egli è il primo sacerdote. «Quella di Agostino, come abbiamo visto in alcuni passaggi, non è una teoria sulla vita religiosa, ma un esempio concreto. Quella della comunione dei beni, per esempio, non è un mero ideale fantastico né un mero desiderio, ma un’esperienza vissuta da persone che hanno deciso di vendere tutti i loro beni, di darli ai poveri e vivere insieme (cfr. Serm. 356, 2)» .
Secondo Agostino la vita comunitaria deve essere scandita in momenti di preghiera, di studio della Sacra Scrittura e di lavoro, ma il Signore dispone di lui diversamente e ascoltiamolo dal vivo: «In quanto a me, anziché sopportare il peso delle cure pastorali, preferirei molto meglio ogni giorno, come si suol fare nei monasteri bene organizzati, occuparmi per alcune ore nel lavoro manuale ed aver libero il resto del tempo per leggere e per pregare o per trattare questioni riguardanti la Scrittura» . Questo è l’ideale della vita monastica per Agostino.
Dunque, è di fondamentale importanza che tutti coloro che vivono in comunità abbiano un’anima sola ed un cuore solo in Deum, perché solo essendo tutti intenti alla parola di Dio possiamo far sì che la vita del monastero sia “ordinatissima e concordissima”: «Ritengo che sia questa la spiegazione più esauriente e sicura dell’espressione in Deum: coloro che abitano insieme nei monasteri formeranno un’anima sola e un solo cuore, a condizione che vivano in dialogo con Dio, aderiscano a lui con le loro menti purificate e gioiscano nella contemplazione della sua bellezza» . Agostino ritorna più volte nelle sue opere sulla bellezza di Cristo e nella Regola dice nella conclusione: «Il Signore vi conceda di osservare con amore queste norme, quali innamorati della bellezza spirituale ed esalanti dalla vostra santa convivenza il buon profumo di Cristo, non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia» .
Rita Melillo
Università “Federico II” – Napoli