Citazione spirituale

Pensiero greco e cultura araba

di

Gutas Dimitri


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EAN 9788806156572

Esaurito
Descrizione
Tipo Libro Titolo Pensiero greco e cultura araba Autore A cura di D'Ancona C. Traduttore Martini C. Editore Einaudi EAN 9788806156572 Pagine 275 Data 2002 Collana Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie

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il 19 settembre 2010 alle 12:44 ha scritto:

Recensione da DIALEGESTHAI (http://mondodomani.org/dialegesthai/)


PENSIERO GRECO E CULTURA ARABA
di Dimitri Gutas
(Recensione a cura di Laura Balestra)

L’analisi di Gutas è tesa a determinare le cause storiche e sociali del movimento di traduzione dei testi della classicità ellenistica, dal greco all’arabo, sorto e promosso dalla dinastia ‘abbāside di Baghdad tra il 750 e il 950 d.C., movimento che si esaurirà in epoca Būyde, quando la scienza e la filosofia arabe divengono autonome e capaci di produrre composizioni originali in arabo senza più l’ausilio dei metodi e dei contenuti della cultura greca. L’avvicendamento dinastico tra Umayyadi e ‘Abbāsidi costituisce per l’autore il fondamento originante la vasta officina filologica che operò per oltre due secoli nella nuova capitale dell’impero. Il movimento di traduzione dal greco all’arabo si configurò come fenomeno sociale e politico complesso, non facilmente inquadrabile entro schemi e categorie universali. L’opera di Gutas bipartisce la trattazione in due sezioni: la prima intitolata Traduzione e impero, la seconda Traduzione e società. “In parte a causa dell’impero, tutte le culture sono coinvolte l’una con l’altra, nessuna è unica e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche.” In epigrafe al testo è posta questa citazione di Said, funzionale all’espressione relazionale che Gutas ravvisa tra potere e cultura nel mondo arabo.
Al tempo dei califfi Umayyadi, la cultura dominante era quella del cristianesimo greco-ortodosso della Costantinopoli imperiale, sostanzialmente ostile alle forme del sapere greco, considerato pagano da alcuni dei massimi esponenti dell’ortodossia costantinopolitana come Giovanni Damasceno, che non faceva certo mistero del suo disprezzo verso tutto ciò che poteva essere categorizzato sotto il nome di ‘ellenismo’. In un clima intellettuale di tal genere era impossibile concepire un qualunque movimento di traduzione dei testi secolari greci in arabo: i cristiani di lingua greca di Damasco, capitale del califfato Umayyade, rivolgevano le loro cure letterarie a generi compositivi quali l’omelia, le quaestiones, i racconti agiografici, perdendo volontariamente memoria di temi e stilemi tipici della letteratura greca precedente, considerata pagana o non-ortodossa secondo i dogmi propri della cristianità bizantina. Nell’organizzazione statale e in campo culturale gli Umayyadi si avvalsero delle strutture e dei funzionari bizantini acquisendo, dunque, da essi lo scarso interesse per la classicità. Difatti le attività di traduzione dal greco all’arabo in tale periodo, seppur non inesistenti, erano tuttavia rare, fortuite, non organizzate né volutamente pianificate. La salita al potere della dinastia ‘Abbāside e “il trasferimento del califfato da Damasco all’Iraq centrale – ossia da un territorio di lingua greca a un territorio di lingua non greca – ebbe la conseguenza paradossale di permettere la conservazione dell’eredità classica greca, che i bizantini altrimenti avrebbero estirpato” , e fu proprio con i primi califfi ‘abbāsidi che ebbe inizio un movimento intenzionale di traduzione. Il secondo califfo ‘abbāside al-Manşūr (754-775) fondò nel 762 la capitale del nuovo impero, Baghdad, la quale, nel corso dei due secoli di dominio della “dinastia benedetta”, divenne il principale centro di potere e cultura del mondo islamico. Ma in che modo questa “translatio imperii” potè considerarsi a fondamento del movimento di traduzione fiorito alla corte degli ‘Abbāsidi? In realtà esisteva già una tradizione politica e culturale sassanide che, precedentemente all’avvicendamento dinastico ‘abbāside, aveva autonomamente sviluppato un’attività di traduzione dal greco, le cui orme i nuovi dominatori ebbero modo di ricalcare. Ma il fenomeno di traduzione non si esaurisce certo in una semplicistica acquisizione di tal genere. Determinante fu la componente politica e ideologica imperiale diffusa dai primi califfi ‘abbāsidi, al- Manşūr e al-Mahdi. Giunti al potere a seguito di un’estenuante guerra civile, i nuovi califfi furono coinvolti nel difficile tentativo di pacificare le fazioni e le coalizioni avverse che avevano partecipato alla cosiddetta “rivoluzione ‘abbāside”. Tale operazione politica venne condotta “[…] diffondendo l’idea per cui la dinastia ‘abbāside, oltre ad essere discendente dal Profeta – e a soddisfare con ciò sia le esigenze dei musulmani sunniti che di quelli sciiti -, era al tempo stesso la dinastia che succedeva alle grandi dinastie imperiali antiche dell’Iraq e dell’Iran, dai babilonesi fino ai Sassanidi, i loro diretti predecessori.” Quale, dunque, il legame tra politica ‘abbāside e avvio del movimento di traduzione greco-arabo? Benchè il sovrano sotto il quale l’attività di traduzione raggiunse la massima fioritura fu al-Ma’mūn, due fonti storiche arabe riferiscono la munificenza del primo califfo, al-Manşūr, nel dedicarsi alle scienze, nel patrocinare traduzioni e nel possedere libri tradotti da lingue straniere in arabo. La pa/shj e)pisth/mhj de/spoina (pàses epistèmes dèspoina), l’astrologia , fu in questo periodo al centro delle traduzioni dei trattati di Teucro, Doroteo, Tolomeo, sotto al-Manşūr. Così come fiorenti furono gli studi condotti su discipline quali contabilità, topografia, matematica, geometria, alchimia, algebra, agricoltura, ottica, medicina, alcune delle quali ritenute necessarie all’educazione professionale dei segretari amministrativi, dei giuristi e degli ingegneri. La società ‘abbāside, sin dalla sua formazione, si presentava composita ed eterogenea, al suo interno coesistevano molti gruppi etnici appartenenti a molte religioni distinte e questo sincretismo culturale e religioso stabilì lo sviluppo, internamente al movimento di traduzione, di un interesse specifico nei confronti di alcune scienze, in primis l’arte dialettica, il ğadal. Risalirebbe al secondo califfo ‘abbāside, al-Mahdi, la commissione della traduzione dei Topici di Aristotele, opera i cui contenuti erano ritenuti funzionali alla necessità di risolvere e contrastare, attraverso l’arte dell’argomentare, le opposizioni ereticali, dottrinali e, più in generale, religiose che si originarono all’interno dell’impero ad opera dei gruppi manichei e marcioniti. Quando eccellere nella disputa d’argomento dottrinale divenne basilare a fini politici ecco che il movimento di traduzione trovava il proprio avvio, seppur circoscritto e settoriale. “Se nei dibattiti religiosi generati dalla politica ‘abbāside la traduzione dei Topici di Aristotele fu cercata per procurarsi una guida in arabo sul metodo della disputa, la traduzione di altri testi fu cercata, in seguito, per acquisire informazioni di contenuto da usare in questi dibattiti teologici”. Questa l’origine della traduzione della Fisica aristotelica. Esisteva dunque una forte interdipendenza tra vicende politiche e opera di traduzione dei testi greci in arabo, di quegli specifici testi che avessero avuto una utilità tale da fornire ai califfi gli strumenti dialettici e teologici per poter intervenire, a ragione, entro le dispute dottrinali dell’impero. Ma l’impulso alle traduzioni non recava solo motivazioni di ordine storico, bensì anche di ordine individuale. Non solo la politica o la religione, ma sovente le passioni e gli interessi personali dei singoli califfi o dei funzionari di corte contribuivano ad incentivare la produzione di versioni arabe di testi di vario argomento, permettendo la conservazione di opere e trattatelli come quello sulla falconeria, divertimento prediletto del califfo al-Mahdi. In breve tempo si incoraggiò e radicò un’attitudine specifica a ricercare al di fuori della tradizione araba informazioni su ogni questione. Mecenati e promotori del movimento di traduzione furono i califfi ‘abbāsidi e le loro famiglie, i cortigiani, i funzionari dell’amministrazione statale e militare, gli eruditi e gli scienziati, appartenenti a vari gruppi etnici e religiosi: musulmani e cristiani, popoli di lingua araba, persiana e siriaca. “Le traduzioni dei testi greci non cristiani in arabo furono effettuate sia a partire dagli originali greci sia da intermediari siriaci o persiani (in pahlavi)”. L’entourage dei traduttori comprendeva persiani convertiti all’Islam, cristiani di lingua aramaica o siriaca, giacobiti, nestoriani, evidentemente dei religiosi a cui i califfi commissionarono, inizialmente, dei lavori. Successivamente tradurre divenne per alcuni una vera e propria professione, molto richiesta, ambita e, soprattutto, altamente remunerata. Il salario mensile di un traduttore di professione si aggirava intorno ai 24000 dollari americani. Un esercito di traduttori professionisti dilagò nell’impero ‘abbāside. Sempre più esperti, con una conoscenza via via più dettagliata e specifica del greco, capaci di tradurre non solo ad verbum (letteralmente), ma anche creativamente, rielaborando e revisionando i testi, contaminando generi, metodi e contenuti diversi. Il capitolo forse più interessante del testo di Gutas e, allo stesso tempo, più significativo nell’ambito del rapporto tra politica e movimento di traduzione è quello relativo al califfato di al-Ma’mūn. Settimo califfo della dinastia abbaside, generale vittorioso salito al potere a seguito di una guerra civile fratricida, ad esso è comunemente attribuito il ruolo di iniziatore del movimento sistematico di traduzione dal greco all’arabo. In realtà, si è detto come già al-Manşūr avesse contribuito all’avvio della traduzione di alcuni testi di Aristotele, ma, si chiede Gutas, cosa potè suscitare l’impressione che si dovesse ad al-Ma’mūn l’adozione della traduzione come forma propagandistica della politica imperiale?
“Tradurre è sempre un’attività culturalmente creativa […]. Ogni cosa che ha a che fare con la traduzione ha una rilevanza e un significato per la cultura di destinazione che sono differenti da quelli della cultura da cui trae origine ciò che viene tradotto. La decisione di tradurre qualcosa e il momento in cui tradurla, la decisione di che cosa e come tradurre e la recezione del passo tradotto, sono tutte determinate dalla cultura di destinazione e quindi significative per quest’ultima.” . Cos’era significativo tradurre al tempo di al-Ma’mūn? Politicamente e religiosamente nell’816-17 l’Islam era assurto a religione universale dell’impero in virtù anche della vasta opera di proselitismo avviata nei sei califfati precedenti, ma “il califfo di Dio” , volle imporre “un’interpretazione assolutistica dell’Islam, con il califfo posto come arbitro ultimo del dogma. Ciò non aveva assolutamente precedenti nella storia islamica […]”. Simile in ciò agli imperatori romani e bizantini, al-Ma’mūn intervenne in campo politico, militare, religioso e fiscale stabilendo una forte centralizzazione dei poteri statali detenuti ed accentrati nell’unica figura del sovrano, manifestando la volontà di non subordinare la sua autorità ad alcuno, sottomettendo tutte le autorità particolari preesistenti alla propria. La religione divenne fondamento dell’autorità regia e quest’ultima, a sua volta, ne fu custode. La politica propagandistica del settimo califfo, varata secondo due direttive principali che lo vedevano unico e vero difensore dell’Islam, nonché giudice supremo della sua veritiera interpretazione, condusse da un lato alla dichiarazione di una guerra imperialistica contro gli infedeli (bizantini) al fine di sottrarre loro vasti territori per espandere il dominio della Dar al-Islam, dall’altro alla sottrazione volontaria di ogni autorità in materia religiosa agli studiosi di teologia per concentrarla nelle sue mani. Il movimento di traduzione fu nuovamente funzionale all’ideologia imperiale. Sebbene tale movimento non fosse novità ascrivibile al “califfo di Dio”, perché già attivo in precedenza, molte fonti e molti resoconti lo definivano, tuttavia, come propulsore di tale attività traduttiva, probabilmente in relazione all’aggressiva politica “filellenica” da lui condotta contro i Bizantini considerati campioni dell’oscurantismo immemore delle proprie radici classiche greche. Il Cristianesimo, considerato componente limitante nel circuito della cultura di Bisanzio, fu attaccato e deriso: come poteva essere concepibile per una civiltà di medici, astronomi, diplomatici, matematici, segretari e maestri, credere che un uomo che, al pari degli altri mortali, aveva mangiato, bevuto, urinato, defecato, sofferto fame e sete, che si era vestito e svestito, aumentato e diminuito di peso, poi crocifisso e ucciso fosse il Signore Creatore, Dio provvidente, eterno, increato? La civiltà di Bisanzio, erede di Atene e di Roma viveva nell’irrazionalità, secondo al-Ma’mūn, ed era colpevole di aver gettato nelle oscure segrete dell’oblio le tracce di quelle geniali menti greche che i musulmani stavano invece recuperando diffondendone l’antica voce attraverso le versioni arabe. Se i cristiani consideravano tedio Ippocrate e Galeno, al-Ma’mūn li riportava in auge, se i cristiani bizantini proibivano la filosofia e la medicina in preda a un terrore per la ragione, spesso contraria ai dogmi, al-Ma’mūn era il ragionevole e razionale difensore della verità, se i bizantini osteggiavano la lettura e la trasmissione di Aristotele, al-Ma’mūn lo sognava fornirgli direttive sull’uso del ra’y (giudizio personale) nella formulazione del discorso migliore e sulla definizione del bene secondo l’intelletto (‘aql). Il famoso sogno di Aristotele, riportato da Gutas in due versioni esegetiche, giustificava da un lato la politica razionalistica del califfo e spiegava dall’altro l’attività di traduzione volta ad affidare il corpus delle versioni dal greco all’autorità del sovrano e ad assicurare ad Aristotele il primato culturale e razionale su tutti gli altri pensatori antichi. Stabilendo in tal modo il primato assoluto dell’intelletto (‘aql) e del giudizio personale (ra’y) in tutti gli ambiti, compreso quello religioso – per cui filosofia e ragione erano superiori alla stessa šarī’a – al-Ma’mūn istituì il principio di universalità e sovranazionalità della Ragione. Ma quale rischio poteva annidarsi e celarsi in questo, per alcuni, spregiudicato uso di ra’y e ‘aql, scevro da qualsiasi implicazione e sorveglianza di tipo religioso e quale riflesso poteva riverberarsi sul movimento di traduzione dal greco all’arabo? Due le questioni da chiarire. Nel IX secolo non esisteva ancora una delineazione di pensiero religioso nell’Islam tale da potersi definire “ortodossia” e, come spiega Gutas a p.186 del testo, l’ideologia califfale stabiliva delle dottrine imposte dall’alto solo in via occasionale e non intenzionale, non esisteva ancora una fede cristallizzata su dogmi o posizioni ortodosse che redigesse un’ipotetica lista di opere proibite nella lettura e nella traduzione perché considerate “eretiche”. E non si può nemmeno chiamare in causa la mihna, l’inquisizione islamica, che, al tempo di al-Ma’mūn, fu strumento essenzialmente politico al servizio dell’ideologia califfale e non religioso, o solo in via secondaria o parallela religioso , dissimile in quest’aspetto, nella sua origine e nel suo sviluppo, dall’Inquisizione occidentale. L’accentramento assolutistico di al-Ma’mūn, mirato a far confluire ogni potere nelle mani del califfo e a debellare ogni intralcio o opposizione ipotizzabile come lesiva degli interessi dello Stato – e lo Stato era il califfo – si servì della mihna come arma per evitare la demolizione dell’architettura politica e ideologica teorizzata e, successivamente, realizzata dal “califfo di Dio”. Sottomettere popoli era facile, più arduo assoggettarne le menti. Il pensiero del dinasta sassanide Ardašir ibn-Babak mise in guardia il nuovo califfo dal potere terribile di una mente non schiava quanto il corpo, che pur soggiogata poteva costantemente essere attiva e tagliente nell’infliggere danno ai detentori del governo assoluto. In secondo luogo, nella Baghdad del IX secolo non esisteva dibattito o opposizione tra “fede” e “ragione” alla maniera occidentale. Questa la voce del più grande filosofo arabo dell’epoca, al-Kindī: “Non dobbiamo vergognarci di apprezzare la verità e di farla nostra da qualunque parte provenga, anche se viene da razze distanti e nazioni differenti da noi. Per chi cerca la verità, nulla è più importante della verità; la verità non dà discredito a nessuno, chi ne parla o la comunica non ne viene disprezzato. Nessuno è diminuito [nella sua condizione] dalla verità; piuttosto, la verità nobilita tutti”. Non sorprende, di certo, la posizione “illuminata” del filosofo che, attivo nella Bayt al-Hikma, la grande biblioteca di Baghad, aveva reso accessibile, con traduzioni e proprie opere originali, il pensiero greco al mondo arabo. Ma per comprendere come non solo le menti più illuminate dell’Islam ‘abbāside, ma anche quelle di matrice più radicalmente tradizionalista fossero aperte alla Verità, da qualunque parte essa provenisse, non osteggiando in tal modo il movimento di traduzione, né l’acquisizione araba delle scienze greche, Gutas cita anche le riflessioni dello studioso tradizionalista, contemporaneo di al-Kindī, Ibn-Qutayba: “[…] La via verso Allah non è unica, […] le strade verso di Lui sono molte e le porte del bene sono larghe… La conoscenza è il cammello errante del credente; gli fa del bene, dovunque egli la tragga: non si deve disprezzare la verità, anche se tu la sentissi dai politeisti […] le opportunità sono fugaci come le nuvole… Ibn-‘Abbās [lo zio del Profeta] disse: «Prendi la sapienza da chiunque tu la senta […]»”.