Editoriale
2 Daniele Piazzi
«Sentinella, quanto resta della notte?»
Studi
4 Manuel Belli
Natale al plurale
9 L uca Palazzi – Luca Balugani
Disturbo traumatico
da celebrazioni natalizie
14 I gnazia Angelini – Francesca Peruzzotti
Quella nascita che indìce il giudizio
19 Stefano Culiersi
Pregare l’attesa.
L’eucologia dell’avvento
25 A ntonio di Marco
Un percorso teologico “pasquale”.
Le quattro collette di natale
31 Franca Feliziani Kannheiser
Vivere l’attesa
36 Massimo Epis
Una grazia che ama la terra
41 R osa Giorgi
Immaginare l’incarnazione
47 Francesca Leto
Abitare lo spazio liturgico a natale
Formazione
53 A lessandro Deho’
L’eco del genuinamente umano
5. Il dono
58 N orberto Valli
Spes non confundit
5. La vita al di là della morte
Asterischi
63 Mario Castellano
«Sarò lì domani».
Una proposta celebrativa
per la novena di natale
75 Segnalazioni
Editoriale
Daniele Piazzi
«Sentinella, quanto resta della notte?»
Invito il lettore a tornare alla prima pagina e leggere o rileggere, se l’avesse già fatto, i titoli degli articoli. Sono una summa, nella dimensione consentita da una rivista, del valore e dei problemi dei due tempi “forti” che aprono l’anno liturgico: l’avvento e il natale. È il ciclo dell’incarnazione che duplica, in un certo senso, la sequenza quaresima– tempo pasquale. È un calendario d’altri tempi. Sono settimane sovraccariche: quattro domeniche in avvento; due o tre nel tempo di natale (l’ultima il battesimo di Gesù), quattro solennità (due mariane: Immacolata e Madre di Dio; due cristologiche: natività ed epifania), e vi si aggiunge un giorno feriale a orario domenicale, organo testimone di un’ottava festiva: la memoria del protomartire Stefano. Sarà possibile una leggera riforma del calendario o è inutile chiudere la stalla se i buoi sono già scappati? Nel frattempo il popolo di Dio (buona parte anche di quello “devoto”) fa le sue scelte e bypassa la domenica tra l’ottava, il primo dell’anno e la seconda dopo natale. A volte sogno che l’epifania torni di domenica, come ai tempi dell’austerity: sono boomer e non Gen Z tantomeno Alpha. Paradossalmente questa overdose di giorni festivi ha decretato nell’occidente festaiolo un cambiamento della percezione del periodo dicembre- gennaio e una lenta agonia delle sue feste cristiane. L’avvento ha il ponte dell’Immacolata e commerciali calendari d’avvento, ma non ci sono personaggi biblici nelle loro finestrelle. Il tempo di natale è, per chi può permetterselo, il momento di andare a sciare e per tutti di preparare il cenone dell’ultimo dell’anno e al 6 gennaio, i magi cedono il posto a una vecchia con la scopa. La liturgia è corredata, invece, di stupende orazioni, ma ancor più di inni e antifone veramente belli. È l’avvento che stenta a dotarsi di canti che facciano alzare lo sguardo al fine e al compimento della storia. «Osanna al Figlio di David», «Dio si è fatto come noi» e «Vieni Gesù, resta con noi» continuano a riempire i repertori parrocchiali. La novena di natale è sempre più deserta e le nostre messe non cantano gli antichi testi, ma si accontentano di inneggiare al divino Bambino, che è sì un “Astro del ciel”, ma “al freddo e al gelo”. Ho riflettuto un po’ dopo aver letto e riletto – come consiglio al lettore – i titoli e i suggerimenti che la redazione consegna agli autori. Mi sono frullate in testa quattro parole, classiche, teologiche, desuete, ormai quasi neanche più da catechismo degli adulti: giudizio particolare (dopo la morte: nota per chi non se lo ricorda), novissimi, verginità, incarnazione. L’escatologia cristiana è sempre orientata da (o costretta tra?) due argini: l’immortalità dell’anima e la risurrezione finale, o come direbbe il Nuovo Testamento: la rigenerazione del mondo (Mt 19,28). L’immortalità dell’anima porta con sé l’attenzione al proprio presente, perché il giudizio particolare è quasi decisivo come l’universale. La risurrezione della carne ci sposta invece a guardare il fine del cosmo e a “giudicare” il presente della storia e il suo dinamismo nell’ottica paolina: Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (Rm 8,22-23). Alla teologia il compito di tradurre attesa e speranza cristiana nella nostra cultura, di osare la speranza, di dare parole nuove e vere a omileti e catechisti. Ai poeti invece il compito di farci cantare il desiderio di un mondo nuovo quando celebriamo le nostre eucaristie e le ore del giorno. Natale ci consegna due parole difficili: “incarnazione” e “verginità”. La “verginità” è il motivo e la possibilità dell’incarnazione. Detto terra terra: se c’è un deficit qualcuno deve intervenire. Solo la verginità può aprirsi alla vita. Avete provato a rispondere a un/ una adolescente di un qualsiasi liceo italiano, che fa la domanda maliziosa sulla verginità di Maria e se Luca riporta un fatto storico o ce la racconta? Ebbene sì, sono un codardo e ho deciso che i vangeli dell’infanzia se li leggessero da soli, commentando da sé il ciclo delle storie della Vergine e di Cristo della cattedrale di Cremona... (a proposito, andate a visitarla nelle vacanze di natale: è davvero bella…). L’altra parola difficile è “incarnazione”. Alla teologia il compito di tradurre nella nostra cultura l’asserto cristiano che quel bambino è uomo e Dio, di osare descriverci come sia possibile che il tutto incontri il frammento, senza morire. Abbiamo bisogno di teologie capaci di suggerire parole nuove e vere a omileti e catechisti per tradurre oggi una fede antica. Ai poeti, invece, darei il compito di violare i testi liturgici, di narrarci lo stupore di un Dio che assaggia la fragilità della carne e si prepara, diventando bambino, a sconfiggere il nemico che l’uomo stesso ha posto nel mondo, la morte, e a trasformarla, condividendola con noi, nella porta dell’eternità.