Citazione spirituale

Ritorno dal pozzo più oscuro

di

Ardinghi Giulio

 


Copertina di 'Ritorno dal pozzo più oscuro'
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EAN 9788825049039

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Tipo Libro Titolo Ritorno dal pozzo più oscuro Autore Editore Edizioni Messaggero EAN 9788825049039 Pagine 128 Data febbraio 2020 Collana Narrationes
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GIULIO ARDINGHI

RITORNO
DAL POZZO
PIÙ OSCURO
Una storia di doping
Questo racconto è frutto della fantasia dell'autore; circo-
stanze, riferimenti a luoghi, persone o avvenimenti sono
risultato di pura creazione narrativa per cui è da escludere
tassativamente qualsiasi collegamento con fatti realmente
accaduti o con situazioni ad essi connesse. Ogni possibile
riferimento alla realtà è quindi assolutamente casuale.




ISBN 978-88-250-4903-9
ISBN 978-88-250-4904-6 (PDF)
ISBN 978-88-250-4905-3 (EPUB)

Copyright © 2020 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO ' EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
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Puzza di topo. Il portone era fondo, scuro, con
un'idea molto vaga della scala che si indovinava
perché in tutto quel buio emetteva una specie
di segnale diverso, un bagliore, mentre non dava
alcuna garanzia su che cosa nascondesse dietro il
primo angolo.
Mia nonna quell'androne lo affrontava ormai
quasi di corsa, e continuava di corsa lungo tutta
la lunghezza fino a mettere il piede sul primo
gradino di marmo che l'oscurità rendeva quasi
diafano.
Lì si apriva la prima vera ipotesi di emersione.
Quel portone in effetti non era un modello di
eleganza e nemmeno di pulizia. Tutto vero. La
prima volta che ci entrammo assieme io sapevo
già a che cosa andavamo incontro, ma lei no, lei
mi teneva stretto per mano: era appena arrivata
dalla montagna bellunese, da quel paese sul lago
sotto un montagnone enorme con mille metri di

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roccia a strapiombo che se ti mettevi nell'angolo
giusto lo vedevi riflesso tutto intero nell'acqua
grigio-azzurra come un incubo.

In quel portone buio e pieno di strani odori,
dove entrava per la prima volta guidata proprio
da me, mi diede una stretta supplementare come
per sottolineare che era obbligatorio essere pru-
denti. Poi con occhio da furba ammiccò, annusò
a fondo con l'aria di un segugio e disse quella
cosa: puzza di topo.
Alla città, con i miei sette anni, io mi ci ero già
abituato. Quel posto del centro storico dove mio
padre aveva trovato casa assomigliava moltissimo
al paese sul Brenta vicino a Bassano che avevamo
lasciato due anni prima.
Eravamo nella parte più vecchia di Verona,
proprio addosso all'Adige e stretta subito alle spal-
le delle case dalla collina che da un lato va su per
il castello di Teodorico e dall'altro lato sale fino
alle Torricelle.
Man mano che passavano i giorni, quell'oscu-
rità non mi intimoriva neanche un po'; mi ero
abituato ad attraversarla anche in perfetta soli-
tudine e a passo lento: ormai era diventato qual-

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cosa di più che la paura da vincere oppure dello
zigzagare a tutta velocità per sfuggire a qualunque
eventuale trappola; tutto il contrario: era quasi la
metafora del navigare eterno di Ulisse, antieroe
come Prometeo, uomini che offendono il loro
stesso destino sfidandolo, pur sapendo benissimo
che la loro predestinazione è scolpita come nella
pietra e alla fine imprigionata e definitivamen-
te compiuta dal potere incontrastabile del fato.
Ecco, io mi sentivo così.

Per me la paura di quel buio misterioso e mi-
naccioso non aveva comunque mai riguardato la
discesa, perché la discesa è rapida e non ti dà nep-
pure il tempo di assaggiarne il sapore. Era verso
l'alto che tutto accadeva miracolosamente, affa-
scinandomi come in uno stato di ipnosi: oltre la
prima rampa abbandonavi l'umido, ti allontanavi
dalle sensazioni più inquietanti, salivi verso odori
differenti, qualcosa che cuoceva e sarebbe andato
in tavola di lì a poco. Odori buoni.
E poi c'era pian piano anche la luce che si
rifaceva spazio, ridiventavi padrone dei migliori
rumori ma anche dei contorni familiari, quelli
che stabilizzano l'esistenza di chiunque, compre-

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si i momenti meno favorevoli o più angoscianti
della vita.
Su per le scale, con fiducia, e poi un passo
oltre la soglia, di nuovo in equilibrio a ritrovare
i suoni della cucina, le chiacchiere oltre il lungo
corridoio, il più delle volte allegre, ma a volte
però forzatamente smorzate da una qualche de-
licatezza difficile da descrivere e impossibile da
dimenticare.
Proprio nell'ingresso, sopra la cassapanca, c'e-
ra quella strana stampa di Napoleone sul caval-
lo bianco, a testa china, in mezzo alla neve e ai
morti, mentre si allontana dalla Beresina dove i
russi, come diceva mio padre, gliel'avevano fatta
vedere loro.

Sono convinto da sempre di avere imparato
proprio lì a correre per un obbiettivo. Così, fin
dalla mia prima bicicletta immaginavo già tutto.
Sapevo che correre non è mai contro qualcuno,
perché la gara la stai facendo prima di tutto in
concorrenza con te stesso, contro il buio e le in-
certezze, la puzza di topo, la paura di non arrivare
o peggio ancora di non trovare quella tua isola in
paziente, infaticabile attesa.

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Tu sì che mi sai ascoltare.
Potessi cambiare posizione e non essere più
inchiodato in questo letto' Sento e intuisco più
che vedere che cosa mi capita attorno; fatico a
capire in che specie di acquario senza suoni mi ri-
trovo immerso. È proprio per questo che non vo-
glio dare segnali di avvenuta ricevuta. A nessuno.
Anche se ci stanno provando in molti. Fino a che
non sono ben sicuro di che cosa voglio dire o fare,
ora che ho ripreso questo pur minimo contatto
col mondo non dirò nemmeno una parola. E non
mi lascerò sfuggire il minimo segnale, neppure un
gemito, neppure un battito di ciglia.
Sembra facile ma non lo è, specialmente se sei
come me alle prese con questa specie di demente
che ride, con gli occhi da gallina e una determi-
nazione irriducibile nell'insistere. Mi parla e mi
parla, anche se deve pur aver capito che non avrà
risposte da me.
O sono io che mi illudo. Lei è tosta oltre che
tonta, eppure mi dà l'idea che abbia intuito qualco-
sa, un lampo, non so. Ha la vera, irresistibile forza
che Molière attribuiva agli stupidi: non si stanca.
Nemmeno se lo immagina quanto ci guadagna
a non capire. Se i miei occhi mandassero messaggi

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traducibili in chiaro lei si sarebbe già buttata di
sotto. Sempre che qui ci siano finestre e forse non
ce ne sono, come nei sommergibili'
Beh, adesso dormo. Tu se vuoi resta pure a
cavallo del mio naso. Magari dormi anche tu.
Oppure fai quel che ti pare.




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Già, la puzza di topo, l'oscurità dell'androne
e delle prime rampe di scale. Niente a che vedere
con questo posto di cui non riesco a distinguere
molti particolari anche se mi posso rendere conto
che qui c'è un bel traffico, sembra Piazza Brà.
Tranne che qui tutti sono vestiti di bianco o di
verde, vanno e vengono, controllano le macchine
che ho intorno e che controllano me, valutano i
livelli dei liquidi, il ritmo della goccia che len-
tamente cala dalla flebo verso le vene. La boccia
della flebo la vedo benissimo, quasi ce l'ho ad-
dosso, per cui anche la goccia non ha più segreti
per me.
Vanno e vengono, instancabili, ma con me
non aprono bocca. Solo la gallina passa spesso
e ogni volta mi parla, ritenta il contatto. Insiste.
Tu fai benissimo a restartene dove sei. Faccia a
faccia con me, dagli le spalle, a tutti, a quei loro
sguardi che subito scivolano via dai miei occhi se

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appena li incrocio del tutto casualmente, alme-
no per quel che mi riguarda. Sei stato una gran
sorpresa, ma gradevole: se ti piazzo nel mezzo
di tutti gli incubi che mi hanno distrutto la tua
compagnia mi diventa preziosa e di te non ho il
minimo timore.
Invece guardali un po' come recitano tutt'al-
tro copione: non sono affatto sicuri che fissar-
ci reciprocamente per un attimo abbia senso.
Nell'incertezza preferiscono non sapere e me ne
accorgo benissimo dalla velocità con cui distol-
gono lo sguardo da me appena finiti i loro bre-
vissimi controlli.
Tu non li puoi vedere. Meglio così. Non la
vedi quella luce imbarazzata e ambigua che per
me significa come una condanna a morte senza
appello, senza speranza.
È la stessa freddezza del giudice nei film ame-
ricani, quando sentenzia l'impiccagione di un ti-
zio e dice Dio abbia pietà della tua anima anche
se si capisce benissimo che non gliene importa
un fico.

Intanto però si aggiunge un che di indefini-
bile a quelle occhiate di un istante e via: a poco

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a poco sto convincendomi che mi spiano in si-
lenzio, che comunque anche se non pare stanno
tentando qualche prova di approccio. Giusto per
vedere come reagisco.
Ma io non reagisco, non ne ho la minima in-
tenzione. So che i miei sguardi sono indefiniti,
immagino che abbiano una luce opaca, inquie-
tante, appannata, con dentro una nebbia lattigi-
nosa che mette a disagio gli altri, ammesso che
addirittura non provochi allarme o non crei pa-
nico o imbarazzo.

Quanto tempo è passato non lo so, ma per me
si tratta comunque di pochi attimi, nemmeno
scanditi dal giorno o dalla notte perché qui fun-
ziona solo il mondo della luce artificiale. Per me
sono passati solo brandelli di ore o giorni o mesi,
e non c'è alcuna possibile identificazione partico-
lare a partire da quel momento di cui conservo
un ricordo che mi atterrisce: quel giorno in cui
prima si è spenta la luce e poi più niente fino a
che sono riemerso. Nell'intervallo soltanto buio,
nient'altro.
Ho bisogno di tempo, tanto quanto me ne ser-
ve per capire se riuscirò a muovermi, se riuscirò

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a non avere più paura di questo posto, di questa
gente che mi controlla e perfino di me stesso.
Non so come e quando mi riuscirà di vince-
re questa nuova sfida. Lasciamoli fottere, tutti: è
tutto già abbastanza difficile così, senza che mi si
complichino ulteriormente le cose.
Adesso è proprio come se avessi davanti un sa-
litone col 15 per cento di pendenza e tanti, tanti
chilometri che nemmeno riesci a immaginarli nel
momento in cui la strada cambia angolo e punta
verso l'alto; come al Tour sul Mont Ventoux, op-
pure come al Giro, quando ti arrampichi in posti
proibitivi come lo Stelvio, il Gavia, lo Zoncolan
con muri di neve spalata che affiancano l'asfalto
e se ne fregano della stagione. Maggio o no poco
importa.
Parliamo dello Stelvio preso dalla parte di Tra-
foi: la prima volta ci caschi come un pollo dentro
il forno. Credi di essere ormai alla fine del pro-
blema perché compare quella schifosa pagodina
kitch affacciata sopra il ghiacciaio verso la valle,
giusto sul tuo versante, dalla tua parte; sembra
così vicina che davvero ti pare di toccarla eppure
sai benissimo che per raggiungerla non basterà
un'altra ora di tortura, restano tanti chilometri.

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Almeno altri 6 o 7, sempre in su, verso la cima
del monte, come inerpicandoti lungo la scala dei
miracoli.
Inchiodato a questo letto, è come se fossi alle
prese con una fatica così, curvo sul manubrio
con gli occhi rigorosamente calamitati da quel-
la misteriosa traccia che in realtà non esiste, ma
che tuttavia in bicicletta si percepisce come una
rotaia piazzata proprio nel centro del nastro di
asfalto. Qualunque corridore lo sa, conosce que-
sta sensazione, vede quel binario con precisione e
lo segue come se la ruota ci scorresse dentro, non
guardando mai troppo avanti, perché sa che spin-
gere eccessivamente lo sguardo è un terribile az-
zardo psicologico: anche se sei in piena efficienza,
anticipare con il pensiero la fatica che devi ancora
spremerti è poco meno di un suicidio. La regola
è: meglio guardare al massimo 5 o 6 metri da-
vanti alla ruota. Tanto tutto arriva prima o poi,
di questo si può essere sicuri.

Perché ti sto dicendo tutto questo' Perché
è proprio così che mi sento. E intanto però so
che mi sto risvegliando, ho il corpo teso e con-
centrato in uno sforzo che nella mia mente non

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lascia spazio ad altro. Scalo un altro genere di
montagna che mi si innalza davanti, che non so
come superare, mentre mi domando come farò,
spingendo quali rapporti e con la forza di quali
gambe. È questa la nuova sfida. Se ce la farò o
no penso che dipenderà soltanto da me. Ne sono
convinto anche se continuo a non avere la mini-
ma idea di che cosa mi sia successo e di quali ul-
teriori e sconosciute complicazioni potrei ancora
essere vittima.

Ma improvvisamente ecco un flash di cui fac-
cio fatica a capire la provenienza. Occhi chiari,
capelli biondi sottili e lunghissimi. È un ricordo
tenero, subito mi si fa struggente. E riemerge an-
che un nome: Gianna'
Ora non posso sbagliare, me la ricordo be-
nissimo e subito riesco a piazzarla anche in un
momento preciso e localizzato della mia vita di
prima: c'era una bella festa sul lago di Garda, a
Bardolino, e tutti erano contenti, ridevano come
pazzi, gli unici che non si imbottivano di alcoo-
lici eravamo noi. Gli altri non avevano obblighi,
nel giro di un paio d'ore non ce n'era più uno che
stesse decentemente in piedi e si vedeva. Però era

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davvero una bella festa. E che stagione era stata.
Ci premiavano per un'ottantina di vittorie, sen-
za contare i piazzamenti. Dieci di quelle vittorie
erano mie. C'era anche lei, quella ragazza che di
ciclismo proprio non ne sapeva una virgola.
Cominciammo a parlare di banalità e poi pas-
sarono ore, ore imprevedibilmente importanti,
mentre mi si apriva davanti agli occhi un mondo
completamente diverso dal mio.
Se sei abituato a una prospettiva come la no-
stra, tutti concentrati nel nostro mestiere, puoi
anche capire di cosa sto parlando.
Un ciclista che corre ha un orizzonte priva-
tissimo, tutto suo. È l'orizzonte formato dallo
sguardo che oltrepassa il manubrio stretto dai
pugni e va oltre al massimo un po' di metri. Non
di più. Se non segui questa regola subito perdi
contatto con la tua sfera, improvvisamente esci
dal tuo binario. Giù con la testa e andare.
Con lei invece mi toccava ragionare d'altro
e perfino senza esaminarmi di nascosto i piedi,
nemmeno per un istante. Tutto differente: era un
parlare guardando avanti, molto avanti, perfino
troppo, avendo come accompagnamento la curio-
sità e l'allegria di una donna come questa donna.

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Gianna, riaffiorata non so come da un pozzo
di oscurità totale'
Ora so che è l'ultima persona presente nell'ul-
tima scena di me ancora sveglio prima di affonda-
re nel mio lungo viaggio dentro il nulla.
Sono i suoi occhi quelli che ho visto prima
che si appannassero i miei e rivedo tutto proprio
adesso, in questo stesso istante, nel momento del
buio che mi precipitava addosso.
Mentre mi caricavano sull'ambulanza alme-
no per un momento avevo guardato quegli occhi
sbarrati. Erano i suoi.




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NARRATIONES



P. Cattaneo, Antonio di Padova. Un amico tra cielo e terra,
2011, pp. 152
G. Basso - R. Medici, In silenzio nel cuore. Antonio tra dubbi e
fede, 2011, pp. 296
M. Rubaltelli, In una conchiglia, 2013, pp. 272
L. Tangorra, Sul mio divano blu, 2016, pp. 152
G. Casini, Oltre il visibile, 2017, pp. 132
V. Arnone, Le voci del borgo. Romanzo di un prete, 2017,
pp. 112
R.G. Greco, L'aquila e la cetra. Il romanzo di Gioacchino da Fiore,
2017, pp. 208
N. Masetti, Il parroco di Santa Fosca, 2017, pp. 256
N. Savino, Quattro racconti dall'Africa, 2018, pp. 76
A. Reyes Pias, Storia di una resistenza. La mia vocazione sacerdo-
tale nella Cuba di Fidel Castro, 2019, pp. 366




Finito di stampare nel mese di febbraio 2020
Mediagraf S.p.A. ' Noventa Padovana, Padova

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