Citazione spirituale

Adolescenti navigati

-

Come sostenere la crescita dei nativi digitali

 
di

Matteo Lancini

 


Copertina di 'Adolescenti navigati'
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EAN 9788859007814

Disponibile in 5/6 giorni lavorativi
In promozione
Descrizione
Tipo Libro Titolo Adolescenti navigati - Come sostenere la crescita dei nativi digitali Autore Editore Centro Studi Erickson EAN 9788859007814 Pagine 172 Data marzo 2015 Collana Capire con il cuore
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Matteo Lancini




Adolescenti navigati
Come sostenere la crescita dei nativi digitali
Indice


Introduzione 9
Capitolo primo
La famiglia è cambiata: dal padre simbolico
alla madre virtuale 13
Come nasce un adolescente navigato 21
Lontani con il corpo ma vicini con la mente 25
Capitolo secondo
La scuola è cambiata: dal ruolo alla relazione 33
Dal timore del preside alla sospensione
con obbligo di frequenza 37
Sapere a cosa serve 39
Capitolo terzo
Corpo, amicizia e amore virtuali 47
Le relazioni senza corpo 52
Dagli amici del nido alla dipendenza dai coetanei 57
Capitolo quarto
Internet tra nuove normalità e dipendenza 65
Ritiro sociale e sovraesposizione virtuale 67
Il trattamento delle dipendenze da internet
da un punto di vista evolutivo 74
Capitolo quinto
Come sostenere gli adolescenti navigati in famiglia 81
Dal segreto alla verità 82
Le incursioni negli ambienti virtuali e nella stanza
del figlio 86
Attenti, autorevoli e non troppo angosciati
dall'adolescenza 91
Attenti, autorevoli e non troppo angosciati
dalla scuola 93
Attenti, autorevoli e non troppo angosciati
da internet 105
Il padre sostiene il futuro 132
Capitolo sesto
Come sostenere gli adolescenti navigati a scuola 151
Gruppo e Consigli di classe 154
Sanzioni inclusive, aggiuntive e coerenti 158
Dal controllo alla cooptazione 163
Bibliografia 171
Introduzione




Forse non tutti sanno che molto spesso l'introduzione di
un libro è l'ultima cosa che si scrive in ordine di tempo. Anche
se nell'organizzazione iniziale del volume è stato redatto un
indice già ben definito, comprensivo di un testo introduttivo,
si è comunque spesso costretti a riorganizzare ciò che è per sua
natura provvisorio, perché la scrittura non è prevedibile. Al-
meno, a me è sempre successo così: mentre scrivi si sviluppano
pensieri e intenti comunicativi non del tutto sovrapponibili a
quelli originariamente ipotizzati. Le poche righe introduttive
giungono dunque al termine del lavoro e, probabilmente pro-
prio per questo, non sono mai facili da scrivere né del tutto
soddisfacenti.
Questo è un libro pensato per gli adulti che interagiscono
quotidianamente con gli adolescenti. Soprattutto per i genitori,
gli insegnanti e gli educatori in genere, ma anche per tutti coloro
che sono interessati ad approfondire le caratteristiche affettive
e relazionali degli adolescenti odierni.
Sempre più spesso gli psicologi dell'adolescenza vengono
interpellati da stampa e televisione per ricevere un'interpre-
tazione che doni senso ad azioni e comportamenti apparen-
temente inspiegabili messi in atto da un adolescente, da solo
o in gruppo. Nel corso della stessa settimana capita di sentire


9
commentare l'evidente immaturità delle nuove generazioni e,
subito dopo, la straordinaria precocità e competenza dei ragazzi
di oggi, testimoniata da un'azione neanche immaginabile per
gli adolescenti di generazioni precedenti. I ragazzi e le ragazze
del nuovo millennio vivono in un'anestesia valoriale, sono im-
maturi, irresponsabili, incapaci di prendersi cura di sé e degli
altri o sono precoci, raffinati esperti di relazione, molto più
competenti e intelligenti delle generazioni precedenti'
Questi quesiti si intrecciano con i dubbi circa la natura
della relazione intrattenuta dagli adolescenti con le protesi
tecnologiche collegate a internet. Il fatto di vivere ventiquattro
ore al giorno sempre in contatto, è possibile stia minando alle
fondamenta la crescita delle nuove generazioni, rendendole
dipendenti, inebetite, superficiali e incapaci di sviluppare un
sano rapporto con il proprio corpo e con la realtà' E, soprat-
tutto, come bisogna intervenire educativamente nei confronti
di adolescenti con lo sguardo perennemente rivolto alle protesi
digitali in ogni contesto si trovino, a casa, a scuola, al ristorante,
e persino quando si incontrano per loro decisione e potrebbero
parlarsi e guardarsi in faccia, anziché continuare imperterriti a
interagire con il proprio smartphone' Oppure si può pensare
che l'utilizzo quotidiano degli strumenti di informazione e
comunicazione virtuale faccia ormai parte della vita di tutti,
compresi gli adulti, e il rapporto che gli adolescenti intratten-
gono con internet sia da considerare come una nuova realtà
con cui confrontarsi, senza comunque rinunciare a trovare
strategie educative'
Questo libro aspira a chiarire come si siano sviluppati questi
dilemmi e come spesso gli adulti, impreparati e sgomenti davanti
alle «nuove normalità», reagiscano attraverso risposte educative
stereotipate, frutto del ricordo della propria adolescenza, così
lontana da quella che hanno contribuito a costruire per i loro
figli e studenti. Il tentativo è quello di comprendere meglio il


10
complesso ritratto affettivo e relazionale dell'adolescente odier-
no e di individuare risposte e strategie educative realistiche e
autorevolmente efficaci, al di là dei soliti slogan sui «no» e i
«paletti» che aiutano a crescere.
Le riflessioni proposte nel volume prendono spunto dalle
ricerche che ho condotto negli ultimi anni, ma soprattutto
dall'incontro con gli adolescenti, le madri e i padri che ho
avuto occasione di conoscere come psicologo e psicoterapeu-
ta, e dal lavoro svolto a scuola, a contatto con insegnanti e
dirigenti scolastici. Attraverso queste esperienze ho imparato
quanto sia difficile svolgere il proprio ruolo materno, paterno
e di docente oggi, ma anche quanto gli adolescenti si possano
far carico delle fatiche e delle sofferenze dei propri genitori.
Quest'ultimo aspetto, meno evidente e più difficile da accet-
tare, probabilmente perché più doloroso per gli adulti, finisce
per essere trascurato di fronte alle incertezze e ai conflitti che
animano la crescita adolescenziale. Immersi dalla nascita in
nuovi modelli educativi, gli adolescenti nativi digitali hanno
sviluppato sensibilità psicologiche e competenze relazionali che
rendono più complesso il lavoro dei genitori e, in senso più
ampio, il presidio educativo adulto.
I piccoli naviganti sono diventati adolescenti navigati.




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Capitolo primo
La famiglia è cambiata: dal padre simbolico
alla madre virtuale




Gli adolescenti odierni navigano in acque molto diverse
da quelle del passato. Il contesto in cui sono nati e cresciuti ha
caratteristiche nuove rispetto a quello in cui si sono venuti al
mondo e diventati grandi i loro genitori. Si tratta di un fatto
innegabile. È cambiata la società, sono diversi i valori di rife-
rimento della famiglia ed è avvenuta una sorprendente meta-
morfosi che ha cambiato i connotati delle mamme e dei papà.
Fino a qualche decennio fa era possibile affermare che
madri e padri si fossero suddivisi i compiti in modo marcata-
mente differenziato. Le mamme accudivano e i padri sgridavano,
davano regole mettendosi a una distanza talmente verticale da
far venir il torcicollo ai figli. La storia di una tipica famiglia
tradizionale del passato recitava un copione classico e ricorrente.
La coppia che decideva di convolare a giuste nozze in realtà
lo decideva, nel senso più letterale del termine, ben poco. Il
matrimonio era una tappa obbligata al raggiungimento di una
certa età, un esito naturale delle cose, un'aspettativa che tutta la
società riponeva nel futuro degli individui. L'arrivo di un figlio
era collocato nella cornice delle medesime aspettative sociali, per
cui sottrarsi al progetto per seguire strade diverse era davvero
un'eccezione, con un impatto molto difficile poi da gestire sia
rispetto alla propria famiglia d'origine, sia rispetto alla comunità


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più allargata. Restare «zitelle» o «scapoli», a meno che non lo si
fosse d'oro, costituiva una sorta di marchio d'infamia, voleva
dire accettare che su di sé si sarebbero scatenate le più infuocate
dicerie e maldicenze circa la propria natura e inclinazione. In-
somma, non seguire il percorso tradizionale nella costruzione
del progetto familiare corrispondeva ad ammettere che ci fosse
sicuramente qualcosa di sbagliato nel carattere della persona.
La concezione dell'infanzia che apparteneva a questa socie-
tà era altrettanto rigida e rigorosa. Il mito affettivo prevalente,
ovvero l'insieme delle rappresentazioni e dei vissuti più diffusi,
restituiva un'immagine del bambino come eccessivamente istin-
tuale, abitato da pulsioni, bisogni e desideri eccessivi e dirom-
penti, che dovevano essere dominati e frenati, nel rispetto delle
regole della società e della buona educazione. Freud, il padre
della psicoanalisi, parlava addirittura un bambino «perverso
polimorfo», per descrivere come fossero presenti, all'inizio dell'e-
sistenza umana, necessità primarie, primitive e autoreferenziali,
che non potevano affatto tollerare l'attesa e la frustrazione. La
mente del bambino era concepita come una «tabula rasa» su
cui poter incidere qualsiasi tipo di informazioni e educazione.
Questa concezione, elaborata dal filosofo britannico Locke,
prevedeva che all'origine della vita del bambino non vi fossero
nella mente contenuti o idee innate. Solo l'esperienza avrebbe
riempito e arricchito l'individuo di nozioni e inclinazioni.
Anche il processo di apprendimento si realizzava esclusi-
vamente attraverso la relazione con l'ambiente, negando così
l'esistenza di capacità e caratteristiche di base, presenti nell'essere
umano fin dalla nascita. La mente umana veniva concepita
come originariamente vuota e per tale ragione il bambino po-
teva essere riempito, plasmato e educato nel modo desiderato
dall'ambiente di riferimento. Il principale valore dell'infanzia
era dunque l'obbedienza: il bravo bambino rispondeva alle
richieste degli adulti ed era disposto a farsi regolamentare. Per


14
ottenere ordine e rispetto delle regole, la punizione e il castigo
rappresentavano gli strumenti educativi privilegiati; se il bam-
bino è per sua natura indomito, sovrabbondante di bisogni e di
richieste, la risposta educativa non poteva che utilizzare come
strumenti preferenziali la privazione e la frustrazione.
La linea dei «no che aiutano a crescere» costituiva la stra-
da educativa elettiva, affiancata dal poco disdegno che veniva
riservato alle punizioni corporali. In fondo, non sono passati
secoli da quando cinghie, bacchette e altri strumenti per l'edu-
cazione di massa hanno smesso di essere diffusamente utilizzati
e hanno cessato di essere riconosciuti come dotazioni educative
di base, reperibili non solo in casa ma anche in tutte le isti-
tuzioni educative non carcerarie, come ad esempio la scuola.
Per chiarire, è meglio dire che questo sistema educativo, se
ben organizzato dai primissimi momenti di vita del bambino,
non necessitava di alcuna punizione corporale per poter essere
attuato. I padri di una volta, non solo non entravano in sala
parto a stabilire un contatto corporeo dopo pochi istanti dalla
nascita, ma potevano anche non toccare fisicamente il figlio per
tutta la vita. Mio nonno, grande lavoratore e padre di molti
figli, una volta mi ha guardato mentre giocavo a calcio in casa
con una pallina artigianale, all'epoca fatta di carta arrotolata e
scotch. Vi posso garantire che il suo sguardo, accompagnato
dal silenzio, non era quello valorizzante e incoraggiante che
conoscono i bambini odierni, sollecitati a continuare perché
il talento si intravede e, se tutto procede così, ci sono buone
possibilità per una carriera da calciatore famoso. Mio nonno,
senza dire niente, mi comunicava l'inadeguatezza del mio
comportamento, che avevo cioè fatto la «mossa sbagliata»:
non si disturba il pater familias mentre in solitaria mangia la
minestra preparatagli puntualmente, ogni sera alla stessa ora,
dalla nonna. Quando si riceve uno sguardo di questo tipo, così
penetrante, immediatamente il comportamento si interrompe


15
e molto difficilmente si ripeterà in futuro. Per lui la violenza
fisica non solo era superflua, inutile, ma avrebbe abbassato, e
di molto, il lignaggio del suo intervento educativo.
La trasmissione di valori e principi giusti, sani e ritenuti
tali dall'alto del mondo degli adulti, dall'intera comunità sociale
che li condivideva in modo unitario e compatto, era ritenuto
l'obiettivo educativo più importante e prezioso per garantire la
crescita e sconfiggere la maleducazione e la psicopatologia. Il
conflitto, esplicitato o meno all'interno della relazione affettiva
familiare, diventava, d'altro canto, inevitabile per crescere ed
emanciparsi. Non era importante salvaguardare la relazione
dalla rabbia e dalla lotta quotidiana. Nella mente dei genitori
della famiglia tradizionale e normativa del passato, si recitava
più o meno questo copione: «A qualunque costo, anche a sca-
pito della nostra relazione, del legame affettivo che ci unisce in
quanto siamo genitori e figli, tu devi obbedire!». Il sentimento
della colpa caratterizzava la vita psichica degli individui, sem-
pre manchevoli di qualcosa, ma soprattutto accusati di aver
trasgredito a una norma, o a un divieto, a causa della propria
natura intrisa di peccato, desiderosa e insaziabile. In termini
psicoanalitici, potremmo definire la generazione nata grosso
modo fino a prima degli anni Settanta, quella dei «figli del
Super-Io»: l'istanza psichica che interiorizza i valori e i divieti
e che governa il senso di colpa.
In seguito, le cose sarebbero molto cambiate. I «figli dei
fiori» avrebbero iniziato a partorire in quegli anni dando vita a
un'altra stirpe, una nuova e differente tipologia antropologica
che, con qualche aggiustamento e rivisitazione, seguirà una
linea di discendenza che arriverà fino agli attuali adolescenti.
Nel pensiero psicoanalitico, in pedagogia e nei costumi
sociali sono state apportate importanti modifiche che hanno
contribuito a scardinare queste concezioni. È cambiata la cul-
tura, si sono trasformati i modelli educativi e si è modificato


16
il modo di funzionare degli individui, non più attanagliati da
colpe vere o presunte, ma, come vedremo nelle prossime pagi-
ne, vittime di un altro sentimento, forse ancora più profondo
e doloroso: la vergogna. Secoli di storia, di teorie e di ricerche
osservative sui bambini nell'ambito della psicologia evolutiva
hanno dato vita a posizioni e teorie differenti sulla natura degli
esseri umani e sulla mente dei bambini.
La concezione della «tabula rasa» ha ceduto il passo a quella
relazionale; il bambino viene ora considerato, al di là di ogni
ragionevole dubbio, come dotato di competenze relazionali
fin dalla nascita, dai primi istanti di vita. Agli albori della sua
presenza nel mondo l'essere umano ricerca la relazione. Il lega-
me con l'altro sarebbe quindi un bisogno primario, al pari del
bisogno di acqua e di cibo. Da qui in avanti, il mondo interno
e la mente del neonato saranno concepiti come abitati da una
potente motivazione interpersonale. Il neonato, infatti, non
solo è in grado di interagire con la madre, ma anche di mante-
nere e modulare il corso dell'interazione. Il bambino partecipa
attivamente alla relazione con la madre attraverso lo sguardo,
le vocalizzazioni, i movimenti, alla ricerca di una risposta che
provenga dall'adulto, non soltanto finalizzata alle cure primarie,
ma alla relazione in senso stretto.
Già nei primi mesi di vita, il bimbo si rapporta attivamente
alla realtà, confrontandosi con essa, pur con capacità cognitive
e percettive ancora immature. Attraverso i primi contatti con
la madre prende vita un emergente senso di sé e della propria
identità. Il Sé e l'identità sarebbero dunque istanze psichiche
molto precoci. Questa concezione ha delle ricadute importan-
tissime da ogni punto di vista, non solo psicologico, si tratta di
una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Il bambino
è una piccola persona a tutti gli effetti; sembra strano doverlo
rimarcare, tale è la potenza che ormai questo concetto ha nelle
nostre menti, ma dobbiamo pensare che non è sempre stato così.


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Capitolo quarto
Internet tra nuove normalità
e dipendenza




Spesso gli adulti dimenticano il loro passato e accusano
il presente di essere la causa di tutti i mali del mondo. Questo
meccanismo è molto evidente nella «guerra tra generazioni»:
da sempre gli adulti e gli anziani se la prendono con i giovani
e spesso anche con le novità introdotte dai cambiamenti dei
costumi sociali e dalle trasformazioni tecnologiche. Quando
sento attaccare in modo indiscriminato la tecnologia, non riesco
a fare a meno di pensare che siamo alle solite.
Come abbiamo già detto, bisogna innanzitutto considerare
che la tecnologia nelle mani dei bambini, fin dalla più tenera
età, viene consegnata dagli stessi genitori e non dal mondo
esterno, dalle istituzioni o peggio ancora da «altri» nemici,
cattivi, attentatori della salute mentale e del benessere dei più
giovani. Per esigenze affettive e di controllo le mamme e i papà
che trascorrono molte ore fuori di casa scelgono di regalare un
telefonino al proprio figlio, che peraltro lo sa usare da molto
tempo prima. Per anni, senza ancora possederne uno, il bambino
ha osservato i propri genitori intenti a telefonare, messaggiare
e fare foto di continuo con il cellulare e ne ha imitato i gesti,
arrivando anche a utilizzarlo davvero, nei momenti in cui i
genitori erano distratti oppure con il loro benestare, per riu-
scire, ad esempio, a stare tutti seduti a tavola al ristorante. Se ci
guardiamo intorno, oggi non c'è molta differenza tra l'uso che


65
adolescenti e adulti fanno della tecnologia, degli smartphone
e delle loro varie funzioni. Il consumo tecnologico dovrebbe
seguire quindi una linea di sviluppo lungo l'arco della crescita:
in infanzia gli interlocutori del traffico virtuale sono i genitori,
con la preadolescenza e l'adolescenza diventano i coetanei. In
questa fase sono molto frequenti gli scontri con i genitori che
diventano vittime di mancate risposte, telefonini irraggiungibili
e ore d'angoscia, causate, da parte dell'adolescente, dalla ne-
cessità di doversi «scollare di dosso» la mamma e il papà, e, da
parte dei genitori, dalla perdita del controllo e della possibilità di
raggiungere il figlio. Il consumo tecnologico origina in famiglia,
quello delle sostanze nel gruppo. Tranne che in qualche caso, in
cui un genitore naif, o un po' fuori di testa, può dire al figlio:
«Facciamoci la prima canna insieme, così scopriamo l'effetto
che ti fa!», il consumo delle droghe è infatti sperimentato con
gli amici, mentre quello di internet con i genitori.
Accanto alle forme di consumo fisiologico esistono, tut-
tavia, delle esagerazioni, che vanno dal totale inutilizzo della
tecnologia, che può segnalare, come testimoniato dalla ricerca
clinica, un profondo disagio, all'iperutilizzo, la cosiddetta
«dipendenza da internet». Su questo tema è in corso un acceso
dibattito, che riguarda in particolar modo l'attribuzione del
concetto stesso di dipendenza tecnologica o internet addiction
agli adolescenti navigati.
In generale, qualsiasi definizione diagnostica riferita
all'adolescenza corre il rischio di essere pericolosamente poco
rispondente a un'organizzazione della personalità che è, per sua
natura, non ancora costituita, ma fluida e in trasformazione. Il
confine tra condotte normali e di dipendenza, riferito all'utilizzo
del mondo virtuale, oggi appare molto difficile da marcare, in
un'epoca in cui tutti sono perennemente in relazione con la
rete. Pensiamo a un adulto: in ambito lavorativo gran parte delle
attività si svolgono attraverso strumenti tecnologici; a casa la rete


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può essere un utile strumento sia per reperire facilmente una
ricetta, sia per consultare le notizie dell'ultima ora o il meteo;
in qualsiasi ambiente che sia connesso, internet rappresenta
una sorta di dizionario simultaneo che consente di trovare ri-
sposta a qualsiasi tipo di quesito. Per un adolescente, abituato
fin dalla nascita all'interazione tra mondo reale e virtuale, è
forse ancora più scontato e urgente il bisogno di collegamento.
Attribuire a un ragazzo una dipendenza patologica da internet
risulta allora molto complesso. Ragionando in termini clinici,
è tuttavia possibile analizzare il fenomeno degli iperutilizzatori,
considerando non tanto il tempo che trascorrono on line '
dato ormai fuorviante, considerata la diffusione di dispositivi
portatili perennemente connessi alla rete ' ma il loro funzio-
namento psichico, ovvero come affrontano i compiti evolutivi
dell'adolescenza.


Ritiro sociale e sovraesposizione virtuale

Per facilitare la comprensione di un fenomeno molto
articolato e che richiede un'analisi profonda a partire dalla spe-
cificità del funzionamento psichico, affettivo e relazionale del
singolo adolescente, utilizzo una classificazione in due categorie
di potenziali dipendenti dalla rete, messa a punto insieme ai
colleghi con cui collaboro da diversi anni. Gli adolescenti che
utilizzano in modo apparentemente disfunzionale la rete e che,
comunque, accedono allo spazio della consultazione e psicote-
rapia come «dipendenti da internet» sono i «ritirati sociali» e i
«sovraesposti sociali».
La seconda categoria definisce quei ragazzi che esprimono
e mettono in scena la propria fragilità narcisistica in modo
diametralmente opposto rispetto ai ritirati sociali, quindi non
attraverso il rifiuto del contatto con gli altri, fino al ritiro del


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proprio corpo dalle scene scolastiche e sociali, bensì attraverso
degli «agiti virtuali», ovvero dei comportamenti che hanno le
stesse caratteristiche degli agiti adolescenziali, ma che vengono
esercitati nella realtà virtuale. Mi riferisco, ad esempio, al sexting,
ovvero all'esibizione di parti del proprio corpo, più o meno
svestito, in rete, attraverso fotografie e filmati, e al cyberbullismo,
in cui l'atto di deridere, minacciare, svergognare l'altro in rete,
senza quindi esporsi direttamente, ha lo scopo di estroflettere
la propria fragilità, agendola sui coetanei.
L'esibizione grandiosa messa in atto attraverso le condotte
di sexting nasconde un bisogno immenso di approvazione e
riconoscimento da parte degli altri. Il Sé di questi adolescenti
è talmente deprivato della possibilità di nutrirsi da solo di una
solida base di autostima e di protezione, da mettersi in pericolo
attraverso una sovraesposizione che, molto spesso, ha effetti
negativi di ritorno. Si tratta di mascherate forme di attacco al
sé corporeo, attraverso cui l'adolescente tenta disperatamente
di sopravvivere al dolore mentale, senza cedere a condotte di
autolesionismo diretto, ma trasformandolo in gesti esibitivi, co-
munque messi in atto dalla stessa fragile regia identitaria. L'im-
possibilità e l'incapacità di impreziosire e arricchire il proprio Sé,
semplicemente valorizzandolo e apprezzandolo per quello che è,
senza rincorrere un ideale irrealistico, rappresentano l'ostacolo
evolutivo di questi ragazzi, tanto sofferenti quanto sfacciati,
disinibiti e aggressivi nel loro modo di presentarsi nel mondo
virtuale. A 13 anni, Lucia viene scoperta dalla nonna, tutta
rossa davanti al computer portatile. Il depistaggio della nonna
funziona, ma non al punto da impedirle di riportare i propri
sospetti ai genitori. La chiacchierata serale con la figlia condurrà
i genitori di Lucia in un ambiente, allo stesso tempo, virtuale e
reale, del tutto inaspettato e angosciante. Lucia, percependosi
complessivamente brutta, come testimoniato dall'assenza di
qualsiasi sguardo di ritorno dei suoi coetanei della scuola, ha


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Capitolo quinto
Come sostenere gli adolescenti navigati
in famiglia




La questione dei consigli e delle «istruzioni manualistiche»
per mamme, papà e insegnanti solleva non poche perplessità
nella categoria degli psicologi e degli psicoterapeuti, soprattut-
to se di orientamento psicoanalitico. In effetti, uno psicologo
attento è sempre restio a offrire suggerimenti e rispondere a
domande su dinamiche intrapsichiche e relazionali del tutto
sconosciute. Provo a spiegare perché tramite un esempio.
All'inizio della mia carriera professionale ho lavorato di-
versi anni nelle scuole, aprendo spazi di ascolto psicologico e
occupandomi di prevenzione dei comportamenti a rischio in
adolescenza. In una delle prime conferenze a cui ho parteci-
pato, si parlava dei comportamenti a rischio e, in particolare,
essendo un istituto con una netta prevalenza di studenti maschi,
dell'utilizzo del motorino. Al termine della serata, durante il
consueto dibattito, una madre prende la parola e dice: «Bel
discorso Lancini, ma quindi a mio figlio glielo compro o non
glielo compro il motorino'». Dopo un primo momento di dif-
ficoltà, le risposi più o meno quello che penso ancora oggi. La
mia esperienza quotidiana mi portava a incontrare ragazzi della
stessa età, della medesima classe, che magari frequentavano lo
spazio di ascolto uno successivamente all'altro, ma che avevano
caratteristiche di personalità e stavano affrontando i compiti
evolutivi in modo radicalmente differente.


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Quindi per Luigi, ad esempio, ragazzo più inibito, ancora
molto dipendente, abituato a muoversi solo in area materna,
la richiesta del motorino mi sembrava potesse essere sostenuta
in nome di una consegna simbolica e concreta di prima speri-
mentazione, distanziamento dall'area familiare e prolungamento
evolutivo della corporeità maschile in via di trasformazione. Per
Massimo, invece, ragazzo che correva già troppo in direzione
dei processi di accomunamento con un gruppo trasgressivo e
che sembrava già rischiare molto in nome della spinta a cre-
scere, mi sarei sentito più in difficoltà nell'intravedere un uso
realmente evolutivo del mezzo che desiderava a tutti i costi gli
regalassero i propri genitori.
Da allora sono passati più di venti anni e quindi, pur con le
dovute cautele e sottolineando ancora una volta come il nostro
lavoro richieda una conoscenza accurata e rispettosa della storia
e del funzionamento del singolo adolescente, di suo padre e di
sua madre, mi sento di poter provare a tracciare alcune linee
guida per sostenere la crescita degli adolescenti navigati.


Dal segreto alla verità

L'adolescenza è l'età della verità. È un passaggio non
semplice ma inevitabile. Il bambino può, e in alcuni casi deve,
essere protetto dalla verità perché non sempre elaborabile a
livello affettivo e cognitivo. Le mamme e i papà lo sanno, ma
quello che appare difficile gestire è il passaggio a una nuova
consapevolezza che l'adolescenza del figlio o della figlia fa
irrompere sulla scena familiare. Se in infanzia i segreti erano
degli adulti, in adolescenza i segreti entrano a far parte della
vita degli adolescenti. L'adolescenza è il periodo in cui è evo-
lutivamente necessario sapere la verità sulla propria vita, sulla
propria nascita, sulle proprie origini. È necessario capire cosa


82
accade davvero ai propri genitori e parallelamente imparare a
gestire i primi segreti. È un percorso che solo chi pensa che
sapere la verità, e le sue complicate e profonde implicazioni, sia
bello e piacevole può rappresentarsi come privo di sofferenza.
Sapere la verità vuol dire essere in grado di elaborare mental-
mente e affettivamente il dolore della crescita e, ad esempio,
della scoperta della propria mortalità terrena. Solo tenendo
conto di questo aspetto si possono comprendere a fondo alcuni
comportamenti a rischio tipici dell'adolescenza, che certamente
hanno a che fare più con il dolore della scoperta della propria
fragilità che con una presupposta invincibilità che spesso la
sottocultura massmediatica attribuisce agli adolescenti. Solo
chi non incontra quotidianamente un adolescente può davvero
pensare che questa sia l'età della «stupidera», in cui si è convinti
dell'invincibilità e immortalità del proprio corpo.
Per questi, e molti altri motivi, non mi è mai capitato nella
pratica clinica di incontrare un segreto materno, paterno o fa-
miliare che risultasse in qualche modo di sostegno alla crescita
dell'adolescente e a un'evoluzione positiva delle vicende per le
quali ero stato contattato.
Il segreto genitoriale o familiare non svelato può avere
diverse conseguenze nella mente del figlio adolescente, che ne
percepisce la presenza e può, ad esempio, formulare nella propria
mente ipotesi capaci di suscitare angosce profonde, ancor più
pericolose di quelle che una comunicazione adeguata della verità
potrebbe determinare. In alcune situazioni, la vicenda emotiva e
relazionale si complica al punto da non capire chi protegge chi.
In una sorta di ribaltamento dei ruoli, è l'adolescente stesso a
non chiedere o a dare segnali evidenti di non volere sapere, ma
quasi sempre perché ha percepito che affrontare quell'argomento
risulta troppo scabroso, penoso e difficile per suo padre o sua
madre. È un esempio di quella capacità di prendersi carico del
dolore e delle difficoltà dei propri adulti, e dei genitori in par-


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ticolare, che le nuove generazioni di adolescenti, che proprio
per questo ho definito «navigati» o «psicologizzati», dimostrano
di avere rispetto alle generazioni precedenti.
Ora, che i figli inizino a farsi carico della confusione e del
dolore dei propri genitori proprio in adolescenza non è una
vicenda nuova e che riguarda solo i nativi digitali. Nella mia
vita, e in quella di quei pochi coetanei con cui ho avuto modo
di condividere un tema così intimo, mi sembra che sia stato
proprio con l'avvio dell'adolescenza che abbiamo dovuto fare i
conti con la percezione di dover gestire affettivamente, in una
sorta di nuova solitudine, le sofferenze che i nostri genitori con
il loro atteggiamento determinavano in noi. Non capivano,
erano troppo presi dalle loro angosce per poter assumere at-
teggiamenti sufficientemente adeguati rispetto ai nostri bisogni
emotivi e psichici.
L'adolescente è quindi da sempre chiamato ad affrontare,
tra le altre trasformazioni, un modo nuovo di guardare e per-
cepire la vicinanza materna e paterna. Tuttavia, la generazione
dei nati digitali, delle relazioni precocizzate con moltissimi
coetanei, degli «spinti a crescere» in nome dell'espressione di sé
e della socializzazione, ha maturato una competenza relazionale
di qualità particolare. Sono soggetti relazionali precoci e grandi
esperti di interazioni, nonostante spesso si senta dire esattamente
il contrario. Questo non mi stupisce, perché parlare soprattutto
dei difetti delle nuove generazioni e di come siano più a rischio
e «peggio messi» rispetto agli adolescenti che eravamo è un re-
frain che sento da sempre perché rassicura sul proprio passato
e, contemporaneamente, fa vendere più libri e avere successo in
televisione. Non credo sia però un buon servizio né ai ragazzi
né, soprattutto, a madri e padri così attenti alla crescita dei figli.
A partire da queste considerazioni, il suggerimento è quello
di avere sempre in mente l'obiettivo di sgombrare il campo della
relazione genitore-figlio adolescente dalle interferenze delle


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bugie e dei segreti custoditi dagli adulti. La relazione risulta
fortemente condizionata dall'area del segreto, del non detto,
fino a generare una sorta di incomprensibilità di quanto sta
accadendo a se stessi, alla propria vita, nella mente del proprio
padre o della propria madre. Un'incertezza molto pericolosa,
perché confonde la mente e può portare il figlio adolescente
a formulare le più disparate ipotesi, ad esempio, sul proprio
destino, su quello della coppia coniugale, sulla salute fisica di
uno dei due genitori o sulle condizioni economiche o sociali
della famiglia.
Sia ben chiaro, non si tratta per il padre o per la madre di
«evacuare» la verità, psichicamente intollerabile, riversandola
improvvisamente sul figlio adolescente o di utilizzarla per scre-
ditare il comportamento dell'altro genitore in caso di conflitti
coniugali. Si tratta piuttosto di pensare a strategie che conduca-
no progressivamente al disvelamento di miti e segreti familiari,
verità scomode, avvenimenti drammatici che, se non consegnati
al figlio divenuto adolescente, rischiano di condizionarne in
modo decisivo la crescita e interferire con la realizzazione dei
compiti evolutivi propri di questa fase dello sviluppo. Nel corso
degli anni mi sono imbattuto in moltissimi segreti familiari,
alcuni straordinariamente drammatici, altri meno violenti, ma
in tutti i casi mi è sembrato che uno dei miei compiti fosse quello
di sostenere le madri e i padri a trovare la modalità migliore
per promuovere il processo conoscitivo. Consentire di sapere,
soprattutto se si tratta di svelare segreti drammatici e antichi, è
un percorso molto doloroso, ma necessario. Dal suicidio di un
proprio parente camuffato in incidente alla malattia ereditaria
familiare nascosta, dalle vocerie sui comportamenti dei figli
giunte alle proprie orecchie e non comunicate all'intervento
educativo o privativo agito in assenza del figlio, è difficile pen-
sare ai benefici a lungo termine di una mancata comunicazione.
Non ha senso, giusto per citare una delle situazioni più comuni,


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sequestrare o buttare l'erba o le sigarette scovate nel cassetto
del comodino del figlio, sedersi a tavola la sera stessa e far finta
tutti di niente: «Vuoi la pasta'», «Sì mamma, grazie!», «Come
è andata oggi a scuola'» «Come al solito».


Le incursioni negli ambienti virtuali e nella stanza del figlio

La questione della conoscenza ha dunque a che fare anche
con la gestione delle incursioni nel mondo privato del figlio,
che soprattutto molte madri sentono di dover effettuare per
monitorare i rischi imposti dalla crescita fisica e psichica dell'a-
dolescenza. È molto diffusa l'opinione che i genitori, giunta
l'adolescenza del figlio, debbano progressivamente imparare a
rispettarne gli spazi privati, evitando l'apertura di tasche, co-
modini, diari, una volta cartacei ora digitali, se non autorizzati
dai figli stessi. Non si può non essere d'accordo ma, al tempo
stesso, è innegabile che gestire le preoccupazioni innescate dalle
sperimentazioni adolescenziali risulti un'operazione complessa
per qualsiasi genitore alle prese con la crescita di quello che è
stato un bambino conosciuto e quotidianamente monitorato,
anche se a distanza, tramite figure adulte ingaggiate dai genitori
entrambi lavoratori.
Dopo tanti anni trascorsi a incontrare madri appassionate
e generose, capaci di percepire le contraddittorie istanze che
le portavano a oscillare tra una posizione rispettosa e una più
controllante, mi sono convinto che in diverse situazioni sia
molto difficile gestire razionalmente l'impatto e la potenza della
preoccupazione materna. L'ansia di ruolo non è governabile,
mentre con un semplice gesto si riesce invece a capire cosa sta
combinando tuo figlio. Certo, nella mia esperienza, anche per
gli stessi genitori sarebbe stato meglio controllare di più la pro-
pria ansia che il figlio. Immergersi segretamente, in assenza del


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