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Teresa il 21 settembre 2010 alle 10:15 ha scritto:

Veramente un libro di sostegno per noi genitori: affronta le problematiche più comuni, proponendo soluzioni semplici e allo stesso tempo consolare l'anima sempre tormentata da mille incertezza in tema di figli.
Si legge d'un fiato! grazie ferrero!


J. Stilton il 20 settembre 2010 alle 20:20 ha scritto:

La más excelente y completa monografía publicada sobre la materia, que tiene su origen en la tesis doctoral que realizó el autor.

Il Dio ignoto - Nicola Giordano
Libro
Nicola Giordano VivereIn (settembre 2008, 249 p.)

S. Ecc. Rev. Mons. Cosmo Francesco Ruppi (arcivescovo emerito di Lecce) il 20 settembre 2010 alle 16:20 ha scritto:

Chi dubita che esistano anche oggi i veri mistici, deve leggere l’ultimo scritto di don Nicola Giordano, per ricredersi (Nicola Giordano, Il Dio ignoto fra dubbi e certezze, ed. VivereIn, pp. 245, € 15,00, presentazione di Mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano).
Nicola Giordano, sacerdote pugliese e Fondatore dell’Associazione internazionale di diritto pontificio, Movimento di spiritualità “Vivere In” e dell’Istituto secolare “Jesus Victima”, è forse uno dei sacerdoti più colti di Puglia e, forse, dello stesso Mezzogiorno.
Per molti anni docente di Lettere classiche nel Pontificio seminario regionale di Molfetta e nei Licei statali, ha insegnato Spiritualità e patrologia presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale e ha scritto una moltitudine di opere ascetiche e pastorali, pubblicate dalla Casa Editrice VivereIn, che ha sede a Roma e a Monopoli, in provincia di Bari.
L’ultima opera, però, ispirata all’Anno paolino, è forse la più significativa ed anche la più profonda, perché ispirata dal Dio ignoto dell’Apostolo delle genti: anche, per lui, il dubbio diventa certezza, quando si incontra con Gesù, l’Uomo-Dio, unico vero maestro di sapienza e di virtù.
Inizia, infatti, con una pronta e appassionata ricerca del volto di Dio, con non poche, pungenti osserva-zioni su certe forme di liturgia e di pietà cristiana, a volte smodate e plateali, per giungere alla domanda-chiave di tutta la vita umana: “Dov’è Dio?...; Santuari, sinagoghe, monasteri, moschee, pagode… dov’è Dio?”.
Dalla critica a molte chiese, che sembrano bettole, “con quel cianfrugliare, quel discettare strano di determinati pastori e/o moderni uomini di Chiesa che si presentano come ispirati e poi davanti al tabernacolo, ove dicono che è presente il loro Dio in corpo, sangue, anima e divinità, “la luce sempre attesa, invocata, sognata, amata”.
Dopo alcune citazioni dell’antico pensiero ellenico – come nota nella presentazione il teologo Vescovo di Albano – si snoda una profonda ricerca che ci porta subito ad Agostino e Anselmo d’Aosta.
Nella ricerca mistica di Nicola Giordano c’è, sin dalle prime pagine, la passione di Paolo e il tormento del vescovo di Ippona, ma c’è anche l’ansia e la sofferenza dell’uomo moderno, che si affligge, perché non riesce a penetrare la vera luce di Dio, ma che non si stanca mai, di cercarla per tutti i vicoli dell’anima.
Nasce così la profonda riflessione sul prologo di Giovanni che squarcia le tenebre e fa balzare, dall’interno del cuore, una forte luce che crea una beatitudine immensa: “Il principio mi ha raggiunto – scrive – ed ho volutamente, ignorato il presente e il futuro. È stato come un tuffarmi nell’immensità asso-luta, senza segni di presenza alcuna. Uno spazio e un tempo, dove mi sono visto piccolissimo ma anche grandissimo, aperto al godimento interminabile. Il Principio mi ha raggiunto, non come l’inizio o la fonte, ma come quell’inafferrabile mistero che si congiunge con l’immanente ed il trascendente, senza un’origine e senza una fine. Poi quel Principio ha assunto un nome, una qualità ed un volto sempre im-prendibili. Il principio si è chiamato Verbo, Parola, ma si identificato con la Sapienza, fonte a sua volta di Ponteza, di Eenergia, di Vita” (pp. 35-36).
Ci siamo dilungati in questa citazione, per dare subito una idea dallo spessore mistico di questo Autore contemporaneo, che ci ricorda Barsotti e non pochi mistici ortodossi.
Passo dopo passo, Nicola Giordano ci porta per i sentieri della mistica, fino a farci vivere L’incanto del vivere nell’Ignoto, che ha un nome, un nome preciso, un nome umano e “si chiama Gesù, l’ebreo nato dalla discendenza di Davide. È Gesù, sublime Sapienza, venuto ad annullare le divisioni, le caste, i partiti, la distanza tra il cielo e la terra. È il Dio preesistente, prima ancora che fosse Uomo. È l’Uomo-Dio in cui credo” (p. 80).
Arrivato a Cristo il nostro Autore scioglie le pieghe del cuore, per dire: “Vorrei tacere per poi contem-plare e amare. Vorrei perdermi totalmente in Lui. Vorrei come inabissarmi nel Tutto che è Lui ed essere parte indispensabile e insopprimibile del Tutto...” (p. 81). Dopo aver citato il salmo 104, riconosce che “al timone della vita come alla base dell’esistenza c’è la Sapienza: in questa immensità non mi sento di affondare o di annegare. Sento il desiderio di proiettarmi sempre di più per non affogare e non morire mentre fiumi di morte tentano di sopraffarmi” (p. 83).
La luce entra nella storia col Figlio di Dio ed è qui che Nicola Giordano si sente felice come il naufrago, che arriva faticosamente nel porto: “Chiamare Gesù significa avviare il processo di configurazione al fine di stabilirsi nel rapporto trinitario: l’uomo diventa casa della Sapienza dopo essere stato proclamato erede e coerede con Gesù, concorporeo e consanguineo con Lui” (p. 121).
Quel Gesù che cammina sulle acque, che va incontro a Pietro che sta per affogare; lo sorregge, quando vacilla; ci solleva, quando cadiamo, piace al nostro lodatissimo Autore: “Gesù è quel famoso Dio che vive fuori delle sagrestie e di tutti i luoghi di culto quando questi diventano sedi di rapporti non del tutto luminosi” e qui aggiunge una staffilata contro “chiesuole e comunità che si pongono ora come alleati, ora co-me distanti e non conformi alla dottrina e alla prassi di vita insegnata da Gesù” (p. 124).
“Non accetto la Chiesa come potenza politica, sociale, economica o anche religiosa. Non accetto la Chiesa di uomini che si credono e si presentano come infallibili e, quindi, intoccabili. Anche la Chiesa è formata di peccatori, bisognosi di misericordia. Non accetto la Chiesa del baciamano, degli inchini devoti, delle genuflessioni davanti agli uomini come davanti a Dio. Accetto e amo la Chiesa pura, santa, dignitosa, umile, generosa, altruista, semplice, trasparente. Accetto la Chiesa come corpo unico, il corpo dell’intera umanità che è il Corpus Christi” (p. 124). Sembra di riascoltare una delle filippiche di San Bernardo di Chiaravalle contro i mali del suo tempo, ma, per chi conosce, nella sua umiltà e mansuetudine l’Autore, capisce subito che tali parole nascono dalla passione per Gesù e per la sua Chiesa.
Il Dio ignoto ha quindi un nome e, come aveva intuito la piccola Teresa di Lisieux, si chiama Amore: “Il nome proprio è Amore. Il suo essere è Amore senza confini, senza ombre, senza limiti. Amore per tutti. Amore da sempre. Amore sempre... Dire sempre... Dire Amore significa certezza di perdono, di misericordia, di aiuto, di protezione, di salvezza. Dire Amore significa grazia, benevolenza, misericordia, perdono, protezione, aiuto” (p. 155).
In otto punti, l’Autore descrive Gesù-Amore e si incanta per questo amore non statico, ma dinamico, che riempie il cuore.
Diventa così facile superare le tempeste rissose di cui scrive nelle pp. 159-163 e penetrare al di là dell’Amore, fin quasi a naufragare in esso.
Travolti dalle sue pagine illuminanti, Giordano ci fa sognare il naufragio d’amore, ci fa entrare, con lui, nel naufragio d’amore: “c’è un naufragio che produce danni irreparabili ma c’è un naufragio che è certezza di amore infinito. Naufragare nell’amore diventa somma felicità” (p. 177)... “È bello naufragare nell’infinito mistero dell’Amore... Il Crocifisso è Amore. La sua morte è Amore. Quell’uomo nudo è Amore. Quell’uomo coronato di spine, deriso, crocifisso è Amore. Ieri, oggi, sempre. Il suo nome è Gesù” (p. 180-181)
Le ultime pagine di questo libro, che raccomanderemo volentieri a chi desidera avventurarsi nei vicoli della mistica moderna, sono dedicate al Risorto, l’Uomo-Dio che entra nella storia dell’uomo e del mondo, per aprire nuovi varchi alla speranza e alla carità.
Ritorna più chiaro il riferimento all’incontro di Saulo con Cristo sulla via di Damasco, aiutandoci a sperimentare la gioia dell’incontro col Risorto: “Mi sento di camminare – scrive Nicola Giordano – con la esperienza di Paolo, l’Apostolo più vicino ai nostri tempi e alla nostra indole. Era, Paolo, un uomo retto, chiaro, deciso… Era molto saggio, coraggioso, aperto e dinamico. Non aveva conosciuto il volto umano di Gesù. Non lo aveva mai incontrato” e aggiunge che non sappiamo se ebbe la fortuna, dopo la sua conversione, di incontrare Maria, la Madre di Gesù. Forse no, a leggera attentamente le sue Lettere.
Incontrò però gli Apostoli a Gerusalemme e divenne anche lui Apostolo delle genti. La vita di Paolo, perciò, cambiò radicalmente quando si incontrò con Cristo Gesù. Così cambia anche la nostra vita, quando incontriamo Gesù, quando dell’Ignoto riusciamo a comprenderne i lineamenti (pp. 229-239) e quando, do-po la notte buia, arriva la luce che ci fa camminare, come Pietro, sul mare della storia...
Un libro da leggere, anzi da meditare!

† Cosmo Francesco Ruppi


Un utente il 20 settembre 2010 alle 16:11 ha scritto:

La teoria del gender non aiuta le donne
di Daniela Delle Foglie

Da “Il Consulente RE on-line” 26 maggio 2010


Siamo nel 2010 e la parità tra i sessi è ancora una meta lontana per l’umanità intera. Per questo motivo concetti come quello di gender sono di fondamentale importanza nel dibattito contemporaneo. La teoria del gender, come è ben illustrato nel libro della storica Giulia Galeotti (Gender-Genere. Chi vuole negare la differenza tra maschio e femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica Edizioni VivereIn), sostiene che femminilità e mascolinità siano costruzioni culturali indotte e che quindi non esistano differenze biologiche tra uomini e donne.
“Donna si nasce non si diventa”: la frase della scrittrice francese Simone de Beauvoir, diventata poi uno degli slogan più diffusi delle femministe degli Anni Settanta, esemplifica bene il concetto condiviso dai sostenitori della teoria del genere ovvero che il “sentirsi” uomini o donne è più importante delle caratteristiche fisiche/genitali degli individui.
Giulia Galeotti costruisce un interessante excursus che copre le prime ricerche scientifiche fino ai risvolti che la teoria ha oggi nella nostra società. Si parte quindi dalla triste vicenda che ha come protagonista lo spietato dottor Money che nel 1965, in Canada, trasformò un bambino, David nato con un problema all’organo genitale, in una bambina, Brenda. La vicenda clinica presentata dal dottore per anni come un incredibile successo scientifico si concluse tragicamente, dopo anni di sofferenze, con il suicidio di David.
Il dottor John Money rappresenta la deriva a cui spesso le convinzioni scientifiche rischiano di portare: usare un bambino e la sua famiglia come vere e propria cavie.

Altri esperimenti famosi sono quelli degli asili “alternativi” nati dopo il 1968 in Germania, che avevano l’ambizione di infrangere gli stereotipati ruoli sessuali storici, o i noti sforzi della Svezia di introdurre un modello di cura dei figli più androgino.

Oggi la teoria del gender è penetrata in importanti ambiti giuridici e legislativi, come le organizzazioni internazionali, Onu in primis.

E’ innegabile quanto in questi anni la tematica del gender sia diventata una questione di vitale importanza. Se l’identità sessuale è quindi frutto di una scelta individuale ecco che nuovi scenari, giuridici e sociali si aprono davanti ai nostri occhi. Se le differenze tra uomini e donne sono dovute a fattori culturali e non biologici allora la parità dei sessi sembra più facile da raggiungere.

Ma se le donne diventassero una categoria astratta? Se le donne attraverso la teoria del gender, che sostiene l’ipotesi della femminilità come mera costruzione (imposizione) sociale, riuscissero a liberarsi della loro peculiarità, che tipo di uguaglianza si otterrebbe? Come sottolinea Giulia Galeotti, buona parte del femminismo oggi lotta contro l’idea che la specificità femminile sia un handicap da cancellare e l’anatomia muliebre un fardello doloroso, trovando nella Chiesa cattolica una fedele alleata.

La teoria del gender, in conclusione, sembra una scorciatoia pericolosa pur di evitare quella che sarebbe la giusta strada da percorrere in vista di una vera uguaglianza. La strada giusta è quella di una società capace di educare, innanzitutto gli uomini e sin dall’infanzia, a ritenere inaccettabili atti di violenza e di mancanza di rispetto nei confronti delle donne. Siamo nel 2010 e tutto questo sembra ancora un’utopia. La teoria del gender sembra quasi sostenere, paradossalmente, che sia più semplice cancellare le donne piuttosto che imparare a rispettarle.

Un utente il 20 settembre 2010 alle 16:03 ha scritto:

Fabrizio Casazza su "La Voce Alessandrina" n. 29 pag. 17 - luglio 2010

“La teoria del gender sostiene che non esistono differenze biologiche tra femmine e maschi, essendo la femminilità e la mascolinità costruzioni culturali” (p. 9). Questa frase è un’ottima sintesi del libretto Gender. Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica, (ed. VivereIn, Roma 2009, pp. 101, € 5,00).
La storica Giulia Galeotti in maniera chiara e stringente ricostruisce la storia di un termine recente (genere), che nei documenti ufficiali tende a sostituire la parola “sesso”, in questo modo, conclude il testo, si cerca surrettiziamente di far passare l’idea che per liberare la donna dalle ingiustizie sia necessario eliminare ogni forma di diversità dal maschio. Eppure la differenza “non è il contrario dell’uguaglianza ma è invece l’opposto di identità” (p. 899; del resto il discorso delle “quote rosa” per il parlamento o dell’esclusività del giudizio della donna per l’aborto sono la paradossale prova che, pur essendo anche il frutto dell’interazione con l’ambiente e la cultura, la mascolinità e la femminilità hanno un ineludibile portato naturale.
La tragica storia di David Reimer, nato nel 1965 e suicidatosi nel 2004, trasformato surrettiziamente in bambina all’età di due anni con l’asportazione prima casuale poi voluta dei genitali, in seguito operato per ritornare maschio, ha drammaticamente mostrato che l’identità sessuale non è semplicemente costruita dalle convenzioni sociali e dall’educazione ricevuta.
Un libretto avvincente e documentato quello di Giulia Galeotti, che smaschera certe ideologie, nascoste nelle pieghe di parole che sembrano innocue, ma veicolano, in realtà, concetti ben precisi, sostenuti da potenti lobbies internazionali, contrastati da un’inedita alleanza tra il femminismo e il Magistero pontificio.

Elena Granata su "Città Nuova" nr. 12-2010 il 20 settembre 2010 alle 15:51 ha scritto:

In modo chiaro e sintetico, il libro della storica Galeotti, che ha per sottotitolo “Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica”, introduce il lettore alla teoria del gender. Tale teoria sostiene che mascolinità e femminilità siano costruzioni sociali dalle quali bisogna liberarsi per stabilire una nuova eguaglianza tra gli esseri umani. Nel significato originario inglese, infatti, sex indica la differenza fisica uomo/donna, mentre gender fa riferimento all’identità sessuale quale prodotto di una costruzione sociale e autodeterminazione individuale.
La Galeotti descrive la nascita di queste teorie del gender sul piano scientifico e filosofico, denunciandone l’aspetto ideologico, e il modo spericolato e manipolatorio che ha caratterizzato studi e sperimentazioni. Come nel caso tragico di David/Brenda, storia dolorosa di un bambino modificato in bambina nella certezza che un’educazione al femminile avrebbe nel tempo cancellato in lui ogni traccia di mascolinità.
Sul fronte opposto, si stagliano alcune teorizzazioni sviluppate nell’ambito dello stesso femminismo e la posizione della Chiesa cattolica, impegnate a riaffermare il valore della differenza tra i generi, entro una prospettiva di eguaglianza e parità. Il procedere della Galeotti è guidato da una tesi ben argomentata. Questa linearità sembra però talvolta oscurare alcuni aspetti controversi (l’unidualità del maschile e femminile) che il tema porta con sé. Le istanze positive del pensiero della differenza, infatti, non richiedono necessariamente di sottacere il valore di chi ha denunciato forzature, stereotipi e costruzioni sociali correlate ad un approccio conservativo e tradizionale ai generi.

Corrispondenza romana n. 1148 pag. 5 - giugno 2010 il 20 settembre 2010 alle 15:22 ha scritto:

È difficile per noi oggi, ad oltre 40 anni dalla rivoluzione sovversiva del 1968, non constatare amaramente tutti i frutti avvelenati lasciatici in eredità dal femminismo.
Dalle suffragette di inizio ’900 sino alla più recente teoria del gender, la storia del femminismo dietro alibi efficacissimi, quali anzitutto la “liberazione dal dominio del maschio”, è riuscito pienamente nella sua opera di demolizione morale, sociale e culturale.
Questa ideologia è certamente una delle più forti componenti di quella cristianizzazione tipicamente occidentale che oggi, avendo ribaltato il costume e la tradizione patriarcale di netta marca cristiana, tenta di schiacciare i suoi avversari attraverso l’uso di nuovi paradigmi e di leggi promulgate per perseguitare chi si ostina a sostenere la necessità della famiglia monogamica eterosessuale e indissolubile (con un uomo per capofamiglia), la illegittimità dell’aborto e del divorzio, e la naturale (e non culturale) differenza biologica tra uomo e donna.
Quest’ultimo punto è trattato con dovizia di particolari nell’ultimo libretto, sintetico e di facile lettura, della storica Giulia Galeotti (Gender. Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina?, ed. VivereIn, Roma 2009, € 5,00). Secondo l’Autrice, «la teoria del gender sostiene che non esistano differenze biologiche tra femmine e maschi, essendo la femminilità e la mascolinità costruzioni culturali indotte, dalle quali bisogna liberarsi per stabilire un’autentica uguaglianza fra gli esseri umani» (p. 9). La teoria del gender rispecchia “orwellianamente” (vedi il celebre romanzo 1984) una vera e propria «rivoluzione del linguaggio» (p. 10), attuata strumentalmente per destabilizzare gli assunti della tradizione cristiana e della stessa auto-comprensione naturale (e sessuata) dell’umanità, con l’obiettivo, a volte celato, di mostrare la naturalità dell’omosessualità, della perversione, e di ogni istanza liberale e libertaria.
L’analisi della dott.ssa Galeotti dimostra che, oltre all’ONU e all’Organizzazione Mondiale della Sanità, uno «sponsor molto attivo dell’ideologia del gender è quindi l’Unione Europea. Basti pensare che tra il 2000 e il 2006 il Fondo Sociale Europeo [sic] ha destinato la non trascurabile somma di oltre 3 miliardi e 500 milioni di euro per sostenere ogni tipo di azione atta a promuovere l’ideologia del gender. A questo scopo, il nostro paese ha ricevuto ben 837 milioni di euro. Ciò dimostra la rapidità e il successo con cui anche nella nostra cultura nazionale si è diffusa (in modo spesso inconsapevole) questa ideologia» (p. 67).
Ma chi sono i fautori di questa ideologia malata e pericolosa? L’Autrice, citando Dale O’Leary, individua sette correnti principali: «1. il gruppo che si occupa del controllo della popolazione; 2. quello dei libertari della sessualità; 3. gli attivisti dei diritti dei gay; 4. i promotori multiculturali del politically correct; 5. la componente estremista degli ambientalisti; 6. i neo-marxisti; 7. i decostruzionisti/postmodernisti. L’Agenda è sostenuta anche dai grandi liberal governativi e da alcune corporazioni multinazionali» (p. 67).
Insomma il femminismo laico e anticristiano, oltre ad opporsi alla Chiesa e alla fede cattolica (anche per essere Dio Padre e non Madre, e Cristo un uomo che ha scelto 12 uomini come fondamenta della sua religione), è una minaccia che pesa sulla società e sulla cultura, sulla scienza e sull’educazione, sul bene comune e la stessa moralità umana.


Chiara Pisati il 20 settembre 2010 alle 14:29 ha scritto:

La storia di Chiara d'Assisi da sempre affascina, non può non essere così!! I disegni di Sr Chiara Amata avvicinano ancora di più questa grande Santa, la simpatia e le tenerezza rendono unico questo volume che non mi stanco mai di sfolgiare, nè di regalare. Leggendolo, mentre si sorride di fronte alle vicende di Chiara e delle sue adorabili suorine consorelle, si medita, si pensa, ci si rende conto a quali meravigliose cose il Signore chiama ciascuno di noi....non importa che siano imprese eroiche o semplici gesti, l'importante è fare tutto con e per Amore...perchè quello del Suo Amore è l'unica unità di misura...veramente infinita!!

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Io credo. - Hanna Julie, Amata Chiara
Libro
Hanna Julie, Amata Chiara Elledici (settembre 2008, 32 p.)

Chiara Pisati il 20 settembre 2010 alle 14:15 ha scritto:

Bellissimo libricino e nell'ultima pagina c'è una piccola grande geniale trovata che sorprende e allarga il cuore sull'amore di Dio così immenso!!


Chiara Pisati il 20 settembre 2010 alle 14:14 ha scritto:

La tenerezza dei disegni di Sr. Chiara Amata rende ancora più efficace il messaggio di Francesco e Chiara!!

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Chiara Pisati il 20 settembre 2010 alle 14:13 ha scritto:

E' uno dei più bei libri sull'educazione che io abbia mai letto! Serve prima di tutto a noi stessi!!

Il libro di Luca - Guglielmi Agnese
Libro
Guglielmi Agnese Piemme (settembre 2010, 176 p.)

GLORIA FLORE il 19 settembre 2010 alle 16:13 ha scritto:

non abbiamo bisogno di vedere tanti miracoli per credere che Gesù esiste. Tu, Gesù, il miracolo ce l'hai messo sotto gli occhi: Luca. Più che "il libro di Luca" andrebbe intitolato "il libro di Gesù"
vista la grandezza dell'esperienza di fede di cui Luca ne è testimone.

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GLORIA FLORE il 19 settembre 2010 alle 16:09 ha scritto:

Se mi guardo indietro, in questo momento vedo buio, ma se guardo avanti verso Te Signore ho solo da ringraziarti perchè vedo il sole. Tu vuoi così, che io mi illumini di Te affinchè la mia vita sia specchio di questa oscura luminosissima notte


Laura Balestra il 19 settembre 2010 alle 12:44 ha scritto:

Recensione da DIALEGESTHAI (http://mondodomani.org/dialegesthai/)


PENSIERO GRECO E CULTURA ARABA
di Dimitri Gutas
(Recensione a cura di Laura Balestra)

L’analisi di Gutas è tesa a determinare le cause storiche e sociali del movimento di traduzione dei testi della classicità ellenistica, dal greco all’arabo, sorto e promosso dalla dinastia ‘abbāside di Baghdad tra il 750 e il 950 d.C., movimento che si esaurirà in epoca Būyde, quando la scienza e la filosofia arabe divengono autonome e capaci di produrre composizioni originali in arabo senza più l’ausilio dei metodi e dei contenuti della cultura greca. L’avvicendamento dinastico tra Umayyadi e ‘Abbāsidi costituisce per l’autore il fondamento originante la vasta officina filologica che operò per oltre due secoli nella nuova capitale dell’impero. Il movimento di traduzione dal greco all’arabo si configurò come fenomeno sociale e politico complesso, non facilmente inquadrabile entro schemi e categorie universali. L’opera di Gutas bipartisce la trattazione in due sezioni: la prima intitolata Traduzione e impero, la seconda Traduzione e società. “In parte a causa dell’impero, tutte le culture sono coinvolte l’una con l’altra, nessuna è unica e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche.” In epigrafe al testo è posta questa citazione di Said, funzionale all’espressione relazionale che Gutas ravvisa tra potere e cultura nel mondo arabo.
Al tempo dei califfi Umayyadi, la cultura dominante era quella del cristianesimo greco-ortodosso della Costantinopoli imperiale, sostanzialmente ostile alle forme del sapere greco, considerato pagano da alcuni dei massimi esponenti dell’ortodossia costantinopolitana come Giovanni Damasceno, che non faceva certo mistero del suo disprezzo verso tutto ciò che poteva essere categorizzato sotto il nome di ‘ellenismo’. In un clima intellettuale di tal genere era impossibile concepire un qualunque movimento di traduzione dei testi secolari greci in arabo: i cristiani di lingua greca di Damasco, capitale del califfato Umayyade, rivolgevano le loro cure letterarie a generi compositivi quali l’omelia, le quaestiones, i racconti agiografici, perdendo volontariamente memoria di temi e stilemi tipici della letteratura greca precedente, considerata pagana o non-ortodossa secondo i dogmi propri della cristianità bizantina. Nell’organizzazione statale e in campo culturale gli Umayyadi si avvalsero delle strutture e dei funzionari bizantini acquisendo, dunque, da essi lo scarso interesse per la classicità. Difatti le attività di traduzione dal greco all’arabo in tale periodo, seppur non inesistenti, erano tuttavia rare, fortuite, non organizzate né volutamente pianificate. La salita al potere della dinastia ‘Abbāside e “il trasferimento del califfato da Damasco all’Iraq centrale – ossia da un territorio di lingua greca a un territorio di lingua non greca – ebbe la conseguenza paradossale di permettere la conservazione dell’eredità classica greca, che i bizantini altrimenti avrebbero estirpato” , e fu proprio con i primi califfi ‘abbāsidi che ebbe inizio un movimento intenzionale di traduzione. Il secondo califfo ‘abbāside al-Manşūr (754-775) fondò nel 762 la capitale del nuovo impero, Baghdad, la quale, nel corso dei due secoli di dominio della “dinastia benedetta”, divenne il principale centro di potere e cultura del mondo islamico. Ma in che modo questa “translatio imperii” potè considerarsi a fondamento del movimento di traduzione fiorito alla corte degli ‘Abbāsidi? In realtà esisteva già una tradizione politica e culturale sassanide che, precedentemente all’avvicendamento dinastico ‘abbāside, aveva autonomamente sviluppato un’attività di traduzione dal greco, le cui orme i nuovi dominatori ebbero modo di ricalcare. Ma il fenomeno di traduzione non si esaurisce certo in una semplicistica acquisizione di tal genere. Determinante fu la componente politica e ideologica imperiale diffusa dai primi califfi ‘abbāsidi, al- Manşūr e al-Mahdi. Giunti al potere a seguito di un’estenuante guerra civile, i nuovi califfi furono coinvolti nel difficile tentativo di pacificare le fazioni e le coalizioni avverse che avevano partecipato alla cosiddetta “rivoluzione ‘abbāside”. Tale operazione politica venne condotta “[…] diffondendo l’idea per cui la dinastia ‘abbāside, oltre ad essere discendente dal Profeta – e a soddisfare con ciò sia le esigenze dei musulmani sunniti che di quelli sciiti -, era al tempo stesso la dinastia che succedeva alle grandi dinastie imperiali antiche dell’Iraq e dell’Iran, dai babilonesi fino ai Sassanidi, i loro diretti predecessori.” Quale, dunque, il legame tra politica ‘abbāside e avvio del movimento di traduzione greco-arabo? Benchè il sovrano sotto il quale l’attività di traduzione raggiunse la massima fioritura fu al-Ma’mūn, due fonti storiche arabe riferiscono la munificenza del primo califfo, al-Manşūr, nel dedicarsi alle scienze, nel patrocinare traduzioni e nel possedere libri tradotti da lingue straniere in arabo. La pa/shj e)pisth/mhj de/spoina (pàses epistèmes dèspoina), l’astrologia , fu in questo periodo al centro delle traduzioni dei trattati di Teucro, Doroteo, Tolomeo, sotto al-Manşūr. Così come fiorenti furono gli studi condotti su discipline quali contabilità, topografia, matematica, geometria, alchimia, algebra, agricoltura, ottica, medicina, alcune delle quali ritenute necessarie all’educazione professionale dei segretari amministrativi, dei giuristi e degli ingegneri. La società ‘abbāside, sin dalla sua formazione, si presentava composita ed eterogenea, al suo interno coesistevano molti gruppi etnici appartenenti a molte religioni distinte e questo sincretismo culturale e religioso stabilì lo sviluppo, internamente al movimento di traduzione, di un interesse specifico nei confronti di alcune scienze, in primis l’arte dialettica, il ğadal. Risalirebbe al secondo califfo ‘abbāside, al-Mahdi, la commissione della traduzione dei Topici di Aristotele, opera i cui contenuti erano ritenuti funzionali alla necessità di risolvere e contrastare, attraverso l’arte dell’argomentare, le opposizioni ereticali, dottrinali e, più in generale, religiose che si originarono all’interno dell’impero ad opera dei gruppi manichei e marcioniti. Quando eccellere nella disputa d’argomento dottrinale divenne basilare a fini politici ecco che il movimento di traduzione trovava il proprio avvio, seppur circoscritto e settoriale. “Se nei dibattiti religiosi generati dalla politica ‘abbāside la traduzione dei Topici di Aristotele fu cercata per procurarsi una guida in arabo sul metodo della disputa, la traduzione di altri testi fu cercata, in seguito, per acquisire informazioni di contenuto da usare in questi dibattiti teologici”. Questa l’origine della traduzione della Fisica aristotelica. Esisteva dunque una forte interdipendenza tra vicende politiche e opera di traduzione dei testi greci in arabo, di quegli specifici testi che avessero avuto una utilità tale da fornire ai califfi gli strumenti dialettici e teologici per poter intervenire, a ragione, entro le dispute dottrinali dell’impero. Ma l’impulso alle traduzioni non recava solo motivazioni di ordine storico, bensì anche di ordine individuale. Non solo la politica o la religione, ma sovente le passioni e gli interessi personali dei singoli califfi o dei funzionari di corte contribuivano ad incentivare la produzione di versioni arabe di testi di vario argomento, permettendo la conservazione di opere e trattatelli come quello sulla falconeria, divertimento prediletto del califfo al-Mahdi. In breve tempo si incoraggiò e radicò un’attitudine specifica a ricercare al di fuori della tradizione araba informazioni su ogni questione. Mecenati e promotori del movimento di traduzione furono i califfi ‘abbāsidi e le loro famiglie, i cortigiani, i funzionari dell’amministrazione statale e militare, gli eruditi e gli scienziati, appartenenti a vari gruppi etnici e religiosi: musulmani e cristiani, popoli di lingua araba, persiana e siriaca. “Le traduzioni dei testi greci non cristiani in arabo furono effettuate sia a partire dagli originali greci sia da intermediari siriaci o persiani (in pahlavi)”. L’entourage dei traduttori comprendeva persiani convertiti all’Islam, cristiani di lingua aramaica o siriaca, giacobiti, nestoriani, evidentemente dei religiosi a cui i califfi commissionarono, inizialmente, dei lavori. Successivamente tradurre divenne per alcuni una vera e propria professione, molto richiesta, ambita e, soprattutto, altamente remunerata. Il salario mensile di un traduttore di professione si aggirava intorno ai 24000 dollari americani. Un esercito di traduttori professionisti dilagò nell’impero ‘abbāside. Sempre più esperti, con una conoscenza via via più dettagliata e specifica del greco, capaci di tradurre non solo ad verbum (letteralmente), ma anche creativamente, rielaborando e revisionando i testi, contaminando generi, metodi e contenuti diversi. Il capitolo forse più interessante del testo di Gutas e, allo stesso tempo, più significativo nell’ambito del rapporto tra politica e movimento di traduzione è quello relativo al califfato di al-Ma’mūn. Settimo califfo della dinastia abbaside, generale vittorioso salito al potere a seguito di una guerra civile fratricida, ad esso è comunemente attribuito il ruolo di iniziatore del movimento sistematico di traduzione dal greco all’arabo. In realtà, si è detto come già al-Manşūr avesse contribuito all’avvio della traduzione di alcuni testi di Aristotele, ma, si chiede Gutas, cosa potè suscitare l’impressione che si dovesse ad al-Ma’mūn l’adozione della traduzione come forma propagandistica della politica imperiale?
“Tradurre è sempre un’attività culturalmente creativa […]. Ogni cosa che ha a che fare con la traduzione ha una rilevanza e un significato per la cultura di destinazione che sono differenti da quelli della cultura da cui trae origine ciò che viene tradotto. La decisione di tradurre qualcosa e il momento in cui tradurla, la decisione di che cosa e come tradurre e la recezione del passo tradotto, sono tutte determinate dalla cultura di destinazione e quindi significative per quest’ultima.” . Cos’era significativo tradurre al tempo di al-Ma’mūn? Politicamente e religiosamente nell’816-17 l’Islam era assurto a religione universale dell’impero in virtù anche della vasta opera di proselitismo avviata nei sei califfati precedenti, ma “il califfo di Dio” , volle imporre “un’interpretazione assolutistica dell’Islam, con il califfo posto come arbitro ultimo del dogma. Ciò non aveva assolutamente precedenti nella storia islamica […]”. Simile in ciò agli imperatori romani e bizantini, al-Ma’mūn intervenne in campo politico, militare, religioso e fiscale stabilendo una forte centralizzazione dei poteri statali detenuti ed accentrati nell’unica figura del sovrano, manifestando la volontà di non subordinare la sua autorità ad alcuno, sottomettendo tutte le autorità particolari preesistenti alla propria. La religione divenne fondamento dell’autorità regia e quest’ultima, a sua volta, ne fu custode. La politica propagandistica del settimo califfo, varata secondo due direttive principali che lo vedevano unico e vero difensore dell’Islam, nonché giudice supremo della sua veritiera interpretazione, condusse da un lato alla dichiarazione di una guerra imperialistica contro gli infedeli (bizantini) al fine di sottrarre loro vasti territori per espandere il dominio della Dar al-Islam, dall’altro alla sottrazione volontaria di ogni autorità in materia religiosa agli studiosi di teologia per concentrarla nelle sue mani. Il movimento di traduzione fu nuovamente funzionale all’ideologia imperiale. Sebbene tale movimento non fosse novità ascrivibile al “califfo di Dio”, perché già attivo in precedenza, molte fonti e molti resoconti lo definivano, tuttavia, come propulsore di tale attività traduttiva, probabilmente in relazione all’aggressiva politica “filellenica” da lui condotta contro i Bizantini considerati campioni dell’oscurantismo immemore delle proprie radici classiche greche. Il Cristianesimo, considerato componente limitante nel circuito della cultura di Bisanzio, fu attaccato e deriso: come poteva essere concepibile per una civiltà di medici, astronomi, diplomatici, matematici, segretari e maestri, credere che un uomo che, al pari degli altri mortali, aveva mangiato, bevuto, urinato, defecato, sofferto fame e sete, che si era vestito e svestito, aumentato e diminuito di peso, poi crocifisso e ucciso fosse il Signore Creatore, Dio provvidente, eterno, increato? La civiltà di Bisanzio, erede di Atene e di Roma viveva nell’irrazionalità, secondo al-Ma’mūn, ed era colpevole di aver gettato nelle oscure segrete dell’oblio le tracce di quelle geniali menti greche che i musulmani stavano invece recuperando diffondendone l’antica voce attraverso le versioni arabe. Se i cristiani consideravano tedio Ippocrate e Galeno, al-Ma’mūn li riportava in auge, se i cristiani bizantini proibivano la filosofia e la medicina in preda a un terrore per la ragione, spesso contraria ai dogmi, al-Ma’mūn era il ragionevole e razionale difensore della verità, se i bizantini osteggiavano la lettura e la trasmissione di Aristotele, al-Ma’mūn lo sognava fornirgli direttive sull’uso del ra’y (giudizio personale) nella formulazione del discorso migliore e sulla definizione del bene secondo l’intelletto (‘aql). Il famoso sogno di Aristotele, riportato da Gutas in due versioni esegetiche, giustificava da un lato la politica razionalistica del califfo e spiegava dall’altro l’attività di traduzione volta ad affidare il corpus delle versioni dal greco all’autorità del sovrano e ad assicurare ad Aristotele il primato culturale e razionale su tutti gli altri pensatori antichi. Stabilendo in tal modo il primato assoluto dell’intelletto (‘aql) e del giudizio personale (ra’y) in tutti gli ambiti, compreso quello religioso – per cui filosofia e ragione erano superiori alla stessa šarī’a – al-Ma’mūn istituì il principio di universalità e sovranazionalità della Ragione. Ma quale rischio poteva annidarsi e celarsi in questo, per alcuni, spregiudicato uso di ra’y e ‘aql, scevro da qualsiasi implicazione e sorveglianza di tipo religioso e quale riflesso poteva riverberarsi sul movimento di traduzione dal greco all’arabo? Due le questioni da chiarire. Nel IX secolo non esisteva ancora una delineazione di pensiero religioso nell’Islam tale da potersi definire “ortodossia” e, come spiega Gutas a p.186 del testo, l’ideologia califfale stabiliva delle dottrine imposte dall’alto solo in via occasionale e non intenzionale, non esisteva ancora una fede cristallizzata su dogmi o posizioni ortodosse che redigesse un’ipotetica lista di opere proibite nella lettura e nella traduzione perché considerate “eretiche”. E non si può nemmeno chiamare in causa la mihna, l’inquisizione islamica, che, al tempo di al-Ma’mūn, fu strumento essenzialmente politico al servizio dell’ideologia califfale e non religioso, o solo in via secondaria o parallela religioso , dissimile in quest’aspetto, nella sua origine e nel suo sviluppo, dall’Inquisizione occidentale. L’accentramento assolutistico di al-Ma’mūn, mirato a far confluire ogni potere nelle mani del califfo e a debellare ogni intralcio o opposizione ipotizzabile come lesiva degli interessi dello Stato – e lo Stato era il califfo – si servì della mihna come arma per evitare la demolizione dell’architettura politica e ideologica teorizzata e, successivamente, realizzata dal “califfo di Dio”. Sottomettere popoli era facile, più arduo assoggettarne le menti. Il pensiero del dinasta sassanide Ardašir ibn-Babak mise in guardia il nuovo califfo dal potere terribile di una mente non schiava quanto il corpo, che pur soggiogata poteva costantemente essere attiva e tagliente nell’infliggere danno ai detentori del governo assoluto. In secondo luogo, nella Baghdad del IX secolo non esisteva dibattito o opposizione tra “fede” e “ragione” alla maniera occidentale. Questa la voce del più grande filosofo arabo dell’epoca, al-Kindī: “Non dobbiamo vergognarci di apprezzare la verità e di farla nostra da qualunque parte provenga, anche se viene da razze distanti e nazioni differenti da noi. Per chi cerca la verità, nulla è più importante della verità; la verità non dà discredito a nessuno, chi ne parla o la comunica non ne viene disprezzato. Nessuno è diminuito [nella sua condizione] dalla verità; piuttosto, la verità nobilita tutti”. Non sorprende, di certo, la posizione “illuminata” del filosofo che, attivo nella Bayt al-Hikma, la grande biblioteca di Baghad, aveva reso accessibile, con traduzioni e proprie opere originali, il pensiero greco al mondo arabo. Ma per comprendere come non solo le menti più illuminate dell’Islam ‘abbāside, ma anche quelle di matrice più radicalmente tradizionalista fossero aperte alla Verità, da qualunque parte essa provenisse, non osteggiando in tal modo il movimento di traduzione, né l’acquisizione araba delle scienze greche, Gutas cita anche le riflessioni dello studioso tradizionalista, contemporaneo di al-Kindī, Ibn-Qutayba: “[…] La via verso Allah non è unica, […] le strade verso di Lui sono molte e le porte del bene sono larghe… La conoscenza è il cammello errante del credente; gli fa del bene, dovunque egli la tragga: non si deve disprezzare la verità, anche se tu la sentissi dai politeisti […] le opportunità sono fugaci come le nuvole… Ibn-‘Abbās [lo zio del Profeta] disse: «Prendi la sapienza da chiunque tu la senta […]»”.


FABIOLA VOLTAREL il 16 settembre 2010 alle 09:41 ha scritto:

Il vissuto intimo di una donna che diventa madre "sulla parola" e di un uomo che diventa padre "sulla parola", raccontati con tenerezza e sottile uso delle parole essenziali. Un'emozione profonda leggerlo, un'esperienza intensa ascoltarlo leggere.

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